Storie di vita e ricordi personali,
qualche volta vividi e qualche altra un po' sfocati dal tempo,
ma non per questo meno autentici e struggenti...

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Un Dilemma senza fine...

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La fotografia che correda questo articolo è stata scattata nelle Langhe, tra le province di Asti e Cuneo. Al di là della dolcezza dei clivi che ricordano il nostro Molise, è legittimo chiedersi cosa c’entri questa immagine con noi. Se ne avete voglia, seguitemi e lo spiegherò...
Qualche tempo fa, in occasione di un fugace ritorno a Monacilioni dopo diversi anni di assenza di cui addirittura scrissi in un librino, mi ritrovai a fare una riflessione su una questione alla quale però non seppi dare una conclusione, e ancora oggi mi capita di fermarmi a pensarci e ad arrovellarmi…
Rivedere dopo tanti anni il paese, mia cugina e alcuni cari amici e paesani, sollecitò la mia memoria a ricostruire e ripercorrere piccoli e grandi ricordi, e mi provocò una forte reazione emotiva…
“La terra delle origini è bellezza per il turista e amarezza per il nativo”, confessai a me stesso, consapevole che le sensazioni restituite dai ricordi di una terra e di un tempo andato sono una cosa molto diversa dalle esperienze che si maturano vivendoci come residente, e che – sempre – il tempo cambia percezioni, sentimenti, persone e anche i luoghi. Per questo, non può essere la nostalgia a "darci pace", a “salvarci”, né l’ “apologia” di un luogo del cuore – il Molise – che forse non c’è più, e che forse è rimasto solo dentro di noi. Ma mentre il Molise, avendo fatto a meno di me per tutto questo tempo può tranquillamente continuare così, sono io, forse, ad aver bisogno del Molise…
Se c’è qualcosa che forse ci può ancora salvare, non è la nostalgia, ma la memoria. O meglio, il ricordo del momento in cui la nostra buona fede e la nostra innocenza toccarono il punto più alto, quando il nostro Angelo Nero fece pace con il nostro Angelo Bianco. La nostalgia ti illude, ti confonde, ti ubriaca e ti fotte, ma la memoria forse ti dà, se quel momento è davvero esistito, la possibilità di tornare a credere che sia possibile riviverlo.
Risucchiato dai ricordi, durante quel fugace ritorno fui felice di ritrovare luoghi e atmosfere che, nonostante tutto, avevano resistito ed erano ancora in grado di rievocare quel momento. Come spesso capita, però, ad una felicità ritrovata corrisponde la paura di perderla di nuovo o, peggio, il terrore di perderla per sempre. Pensai: come mi sentirei se questi luoghi e queste atmosfere, fatalmente, si perdessero definitivamente?
Schiacciato tra il desiderio che i nostri posti del cuore restino per sempre fermi e “compatibili” con i nostri ricordi più belli e struggenti, e l’auspicio che invece si trasformino per conformarsi alle sensibilità dei tempi correnti e per meglio corrispondere agli “standard della civiltà attuale”, mi esplose tra le mani “Il Dilemma”, a cui ancora oggi non so dare una soluzione...
Temevo si trattasse di una mia cervellotica elucubrazione personale, ma navigando su Internet mi sono imbattuto in una riflessione del mio amico Carlo che mi è sembrata essere sullo stesso “registro”, sulla stessa lunghezza d’onda, e la cosa mi ha confortato: non sono solo io – ho pensato – a soffrire di questa curiosa sindrome indotta dall’incedere del tempo e che trasforma tante persone in perfetti vecchi babbei...
Le riflessioni e la scrittura di Carlo, a volte, seguono percorsi che sembrano scorbutici, ma alla fine regalano sempre una carezza, un pannicello caldo per l’anima, ovviamente per chi ne ha ancora una. Così, dalla sua riflessione ho tratto forza per scriverne una anch’io, e poi perfino per non tenerla per me, per raccontarla a chi viene dopo di noi, per provare a trasmettere quanto sia importante far sì che il cambiamento, se è proprio ineluttabile, sia... almeno lento.
Perché se l’evoluzione, le trasformazioni e i cambiamenti sono veloci e repentini, a volte possono non darci nemmeno il tempo per adeguarci e abituarci, ma è anche peggio se ci incalzano fino a toglierci il fiato e sottrarci il tempo per capire che ci stanno uccidendo, che stanno uccidendo la nostra storia e i nostri sentimenti. E che quando accade questo, spesso e purtroppo non è per caso.
Ma veniamo a Carlo. Lui è originario delle Langhe, e così finalmente si spiega la fotografia! Se avete presente, le Langhe sono quella zona del Piemonte appena sotto la provincia di Torino e a cavallo tra le province di Asti e Cuneo. Le Langhe sono famose per il tartufo bianco, il vino e il formaggio, e i paesi più famosi sono Alba, Dogliani, Bra, Barbaresco e Pollenzo, dove tra l’altro ha sede l'Università del Gusto, il "regno" di Carlin Petrini fondatore di “Slow Food", l'associazione internazionale che promuove una cultura alimentare basata sulla biodiversità e sulle produzioni naturali in piccola scala. Fino a quaranta-cinquant’anni fa, le Langhe erano come e peggio di tanta parte d’Italia: disperate e con le pezze al culo, emissarie di tanta emigrazione. Oggi sono… “una ridente regione ricca di spunti per un turismo intelligente”.
Ecco, è così che ne scrive Carlo…
«Quand'ero bambino e andavo a trovare i parenti ad Alba e nelle Langhe, era tutto una meraviglia, un avventuroso viaggio in un mondo fiabesco. Oggi che ci torno, provo un senso di disagio profondissimo. Certo non sono più un bambino – e quindi la meraviglia non mi viene più così facile – ma altrettanto certo è che quei luoghi sono stati levigati da un'enorme pialla e poi rivestiti di plastica. Questa è l'immagine che mi è venuta in mente. La pialla sono i soldi. La plastica è il “dress code” di tutti i luoghi che improvvisamente si ritrovano a maneggiare ricchezza e gente varia che, da tutto il mondo e spesso con la leggerezza delle “suv porche” con cui arrivano, vogliono consumare tutto il consumabile: cibo, paesaggi e tutto il resto. La puoi girare come vuoi, ma è un “dress code” di merda, messo su alla veloce e alla bell’e meglio, quindi una roba fondamentalmente da cafonazzi, un “dress code” che impone di radere al suolo una trattoria per trasformarla nella parodia di un ristorantino milanese, per dirne una. Io e mio zio – mio zio è uguale a mio padre, cosa che mi ha messo addosso una nostalgia fortissima – abbiamo fatto una passeggiata dentro quella bolla ovattata, in mezzo a tutta quella borghesia formattata e ai turisti con la bustina porta-bicchiere appesa al collo. Quando gli ho chiesto cosa pensasse di quest'atmosfera quasi surreale mi ha detto: non mi ci riconosco più in questi posti. E mi sembrava molto smarrito.
Allora io dico (dopo aver enunciato l'ovvio, la chiusa moralista alla Savonarola non me la nego mai): avete venduto la vostra anima per una polo ralph lauren: bravi scemi. Prima o poi vi mancherà, la vostra anima. E aggiungo: come mi stanno simpatici quelli che maltrattano i turisti, che non danno servizi, che rifiutano di parlare la tua lingua, che si tengono stretto il porro viola sulla punta del naso e il loro bar pulcioso con i vetri pieni di cacche di mosca».

Ecco. Il Dilemma è tutto in queste parole, e Carlo ha saputo metterle insieme alla grande.
Ciò nonostante, io ancora non riesco a trovargli una soluzione, a questo Dilemma, però mi sento di dire una cosa a chi verrà “dopo”. Si tratta certamente di un’ovvietà moraleggiante alla Savonarola come dice Carlo, ma mi sono convinto che a forza di ometterli perché ovvi, certi pensieri rischiamo di sotterrarli nell’oblio con le nostre stesse mani…
Non possiamo fermarlo ed è giusto che il mondo vada avanti a immagine e somiglianza di chi lo vive, ma non facciamoci prendere dal fervore della modernità e dalla velocità. La velocità potrebbe trasfigurarci, e noi rischieremmo di non sapere più a chi assomigliare né chi essere.
Ecco, forse anche la lentezza potrebbe "salvarci", insieme alla memoria...

Luigi

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Quel profumo di pane fresco croccante e di p'ttrin...

A volte basta un suono, un odore, un sapore oppure una fotografia a farci tornare indietro nel tempo, a risvegliare ricordi sopiti e ben serrati in quel cassetto segreto del nostro inconscio. Ricordi addormentati, ma pronti a risvegliarsi, ad esplodere e illuminare, come fulmini a ciel sereno.
Oggi sono tornata con la mente al mio paese, là dove c'è quella radice profonda che ci lega alle strade, ai tetti, al suono delle campane, al pane e olio, a tutto ciò che sa di buono. Non si va mai via davvero: il paese trattiene la memoria di noi, di quello che fummo, di quello che furono i nostri cari, i nostri amici e le nostre sensazioni, magari mai manifestate.
Quello che voglio raccontare è che, oggi, mi ha assalito all'improvviso un ricordo: mi è passato davanti agli occhi come un vecchio film, di quelli che ti emozionano e ti restano dentro per sempre. Non me ne vogliate, il mio film potrebbe intitolarsi “'a p'ttrin”. Si proprio così: quella parte del maiale che, confesso, non ho mai capito quale fosse, povero maiale che viene sacrificato per nutrirci e soddisfare i nostri istinti goderecci. Mi dispiace molto per te caro maiale, non meriteresti di morire per mano dell'uomo, ma un po' è anche colpa tua. Sì, perché se tu fossi meno buono e generoso, avresti sicuramente vita più lunga. Vedi, è così la vita, a essere troppo buoni, si soccombe e ci triturano.
Dunque siamo nel periodo in cui si ammazzano i maiali per farne salsicce, soppressate, prosciutti e ogni ben di Dio. Del maiale non si butta via niente, e vedo sempre tante foto del prodotto finito: il maiale insaccato nelle sue budella, steso ai soffitti ad essiccare, oppure messo in vasi, insomma una roba da far venire l'acquolina in bocca anche al più inappetente e mistico cultore delle dottrine orientali, della meditazione e del respiro dell'aria, lontano mille soli dalle terrene voglie.
E a proposito di acquolina in bocca... capitò che, camminando per via San Rocco, arrivai davanti quella che era una sorta di trattoria familiare di poche pretese, e sugli scalini che conducevano al portone di accesso alla casa-trattoria, c'era seduta una ragazza. Niente di strano: in paese si sta seduti fuori a godere il fresco o il calore di qualche raggio di sole capitato per caso in inverno. Ma quella ragazza, che non conoscevo, stava facendo qualcosa che ancora oggi ricordo. Dico oggi, quando è passato quasi mezzo secolo, ma non è un ricordo sbiadito o annebbiato dal tempo: è nitido, ce l'ho qui, mentre scrivo, stampato sul pc.
Ebbene, la ragazza aveva in una mano una fetta di pane, quello buono, fatto in casa, e sopra quella fetta c'era un'altra fetta che sembrava di carne, bianca con striature rosse. Nell'altra mano aveva un coltellino piccolo, ma doveva essere ben affilato perché con quello la ragazza tagliava un piccolo pezzo di quella cosa bianca e rossa, un piccolo pezzo di pane e se li portava alla bocca con un'espressione di una tale voluttà che non avevo mai visto prima. C'era qualcosa di ieratico in quel gesto che si ripeteva metodicamente, quasi ritmato, come obbedisse ad un maestro d'orchestra. Un pezzo di carne, un pezzo di pane, in bocca; un pezzo di carne, un pezzo di pane e gnam, in bocca. Io, immobile e incantata, guardavo, seguivo quei movimenti: taglio-mano-bocca-masticazione-deglutizione. Ero forse a bocca aperta. Sembrava che anche io stessi godendo di quel cibo degli dei, a me invero sconosciuto. Finché la ragazza, girando lo sguardo, si accorse della mia presenza e, forse per gentilezza e senso di accoglienza verso lo straniero, mi disse: vuoi favorire? Se voglio favorire? Ma certo che sì! Sì, volevo, volevo provare anch’io quell'incanto in cui lei si era persa, lo volevo fortemente. Ma sapete com'è nei paesi, almeno ai miei tempi: bisognava fare i complimenti, ossia rifiutare gentilmente ciò che gentilmente veniva offerto. Così mi avevano insegnato i miei genitori, ma che diamine! Erano proprio votati alla sofferenza, i nostri cari! Insomma, fedele agli insegnamenti ricevuti e a quello che oggi viene definito - a torto, badate bene, quando si tratta di cibo, molto a torto: bon ton - con immenso dolore e fatica sovrumana aprii la bocca che avrebbe invece voluto, lei, la bocca, ingurgitare tutto quel paradiso di pane e carne bianca a strisce rosse, aprii la bocca e mi sentii dire con tono di distacco... ossia no, un momento: voleva essere distaccatoo, perdonate, ma come poteva essere distaccato se, letteralmente, morivo dalla voglia di assaggiare? Che tragedia si stava consumando dentro di me! Amleto, al confronto, era un principiante. Insomma, per farla breve, mi venne fuori un sofferto e strozzato: “No grazie, ho già mangiato. Ma scusa, cos'è che stai mangiando?”. E lei, la privilegiata, l'unta dagli dei dell'Olimpo, mi rispose: “A p'ttrin”. Chiaro, no? Per voi forse è chiaro, per me invece no, ancora mi sto chiedendo cosa sia a p'ttrin. Guanciale? Pancetta? Potreste dirmi - e so che me lo direste - “Ma non potevi chiedere maggiori informazioni? Non potevi accettare o magari, col tempo, comprare un paio d'etti di p'ttrin? Così imbranata eri?”. E qui bisogna ammettere che solo in una cosa avreste sbagliato: il verbo. Sì, il verbo al passato.
Comunque, ad essere seri, qualunque persona del paese avrebbe saputo spiegarmi bene l'origine di quel tocco di maiale, ma non volli, no: volli rimanere nel mistero di quell'emozione che coinvolgeva non solo uno dei cinque sensi, ma anche la capacità di sopportazione del dolore causato dalla rinuncia, fatta non in nome di un ideale o di un precetto religioso, o magari di un fioretto, bensì della buona creanza. Fu la mia occasione mancata, fu il gran rifiuto, fu l'immolazione sull'ara del tempio del maiale.

Teresa

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Za' Luret' du Surd

Francescantonio ci scrive dall'Australia e ci ricorda una bellissima storia chiedendoci di pubblicarla.
Quanti ne ricordano la protagonista?

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Carissimi compaesani ed amici,
vorrei ricordare una cara e santa persona che forse in molti abbiamo dimenticata, ma a lei è legata una delle storie più belle e struggenti del nostro passato.
Qualcuno ricorda za' Luret du Surd? Abitava in via San Paolo, in un locale seminterrato che successivamente fu usato come suttan'. Il locale si trovava di fronte alla casa di Zia Nicia, era lungo e buio, sotto la casa di z' Michelin u' Curdar, il padre di Mercurio Clemente, e per molti anni venne usato da z' Francisk Vasarell per il torchio. Lì, con z' Peppin u t’nar, facevano anche botti e barili.
La nonna materna, Dett' Angelon', abitava un po' piu avanti. Ricordo bene tutto, ho vivida memoria della meza port' del locale usata per la luce e l'aria, e infatti non c’erano finestre, ma solo un grande camino sempre acceso per cucinare i Cummit quasi giornalmente. Non credo che za' Luret sapesse cosa fossero i fornelli a gas, anche se cucinava sempre per tanta gente.
Za' Luret si era appena sposata, e il marito (di cui non ricordo il nome), ritornando dalla campagna, una sera trovò sulla via di casa una persona, a terra, in un lago di sangue.
Il poveretto si fermò per cercare di aiutare lo sventurato che sembrava ancora sanguinare dalla testa. Mentre questa anima buona cercava di aiutare lo sventurato, arrivarono altre persone, anche  loro rincasando dai campi, che lo videro con le mani sporche di sangue. Tutti lo accusarono del delitto e al pover'uomo fu inflitta una pena di 30 anni di carcere.
Tanti anni dopo, quando tutti avevano dimenticato, il vero colpevole, sul letto di morte, volle confessarsi e chiese al prete che dopo la sua morte, sull’altare, rendesse noto a tutti che era stato lui a commettere l’omicidio, e non il marito di za' Luret che stava da anni scontando la condanna senza colpa.
Così, il marito di za' Luret fu immediatamente scarcerato e, dopo 22 anni, poté finalmente tornare a casa dalla sua ormai non più giovane moglie, ma non poterono più avere figli.
Il Governo del tempo gli assegnò una piccola pensione, ma dopo pochi anni morì lasciando za' Luret vedova e senza eredi.
Dopo la morte, la magra pensione venne trasferita a za' Luret che la usò solamente per aiutare e dar da mangiare alle tante famiglie che ne avevano bisogno.
Una cosa che credo forse molti della mia età o più anziani ricorderanno, è che ogni domenica, dopo la Messa e nelle festività, za' Luret, con tanto amore, preparava la devozione per il Santo del giorno, che noi chiamiamo U' Cummit'. Molti ricorderanno che i ragazzi che venivano dalla campagna e che non avevano una loro casa in paese andavano a mangiare da za' Luret, dove pregavano con lei.
L'intera pensione veniva spesa da za' Luret con amore per i poveri e per la gente di campagna che, come lei diceva, non avendo una casa in paese non sarebbero riusciti a mangiare.
Il mistero e il fatto più bello che spesso sentivo raccontare da tante persone è che za' Luret diceva sempre di voler morire il giorno della festa di San Pietro e Paolo (26 giugno) poiche’ - diceva - “San Pietro, intento a festeggiare il suo giorno, lascerebbe i Cancelli del Paradiso aperti e io potrei entrare senza nessun problema"...
Il caso volle che za' Luret morisse esattamente il 26 giugno (non ricordo l’anno) e… credo proprio che San Pietro non l’abbia vista entrare...

Quanti dei ragazzi che frequentavano la casa di questa benedetta donna la ricordano?
Le dedichiamo un Eterno Riposo?

Francescatonio

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Ancora una volta

Ancora una volta,
come mi capita da qualche tempo,
mi arriva la tua voce,
mi chiami, mi inviti a tornare alla sorgente,
quella che mi ha dissetata,
mi ha alimentata,
mi ha cresciuta ai racconti fiabeschi delle nonne,
al flebile lume del focolare,
mi ha illuminato il fantastico luccichio delle lucciole,
mi ha temprato il freddo intenso delle gelide notti invernali,
mi ha confortato l'amichevole sorriso del vicino,
la sicurezza di una porta sempre aperta,
di una chiesa sempre piena,
di gente che non si lamentava mai. 
Perciò io corro, quando tu mi chiami, paesello,
perché io non dimentichi,
non creda alle illusioni di un mondo menzognero, 
ma resti fedele agli ideali di vita semplice, amorevole, vera, significativa,
in coerenza con quella in cui tu mi hai fatta crescere.
Grazie, paese mio.

                               Rita Di Cera, Pensieri su Monacilioni

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Il destino

Quann c' nasc' nu' criatur
ciú t'nem cusci' cumm je'
p'rche' je' u nosc-tr ' e i vulem sempr' ben'.
Cusci' avess'ma fà' cu' d'sc-tin.
Cert vot' c ie' cumpagn',
Cert vot ie' nu branz'sat.
T'nemciu sc-tritt sc-tritt
Je' u nosc-tr' e bbasc-t.
Nnà scema caccia' quann' c'arriv 'na d'sgrazie.
A scem nazz'cà cumm' a nú  quatrar
pur' quann chiagn' e c' fa' d's'p'rà.
Ciú scema  t'ne' p' quell' ch je'.
'N zerv' a nient' r'bbllar'c.

                                                 Anna

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Il bosco in una stanza

Specchi riflettono il bosco che orna la mia dimora.
Immagino fate e folletti che aprono la porta per augurarmi un buon dì, ornati di fiori e rami profumati, su un vassoio di gelsomini mi porgono la colazione.
Facendo capolino sul mio orecchio sussurrano frasi indecifrabili e dai suoni scherzosi
"li oleic orruzza" ed io sorridendo li accolgo con zucchero filato e miele di acacia e come per magia rispondo: "E sì oggi il cielo è splendido, trasparente, turchese: così carico di energia che mi piacerebbe staccarne un pezzetto tutto per me".
Ridono divertiti perchè ho capito il loro linguaggio. Evviva, mi considerano una di loro e si proprio così una di loro che viaggia in un cosmo fantastico e non ostico, in un cosmo che non te la brucia questa benedetta fantasia, ormai considerata nemico numero uno della società così scientifica e razionale, così utilitaristica ed attenta soprattutto ai bisogni di pancia. Cos'è lo spirito?
Ah sì, è l'alcool che serve per disinfettare le ferite o per conservare le ciliegie.
Che grettezza. Ciò che mi circonda non mi appartiene, è tutto così monotono e scontato. Tutti corrono verso cosa?
Una casa più lussuosa ma mai goduta, un giardino con piscina mai inaugurata, senza amici veri, affidabili, sinceri, solo conoscenti con i quali instaurare un rapporto di "do ut des".
Pensando a tutto questo mi avvolgo nel mio bosco, nella mia stanza ascoltando la mia musica, quella del cuore, quella musica che a volte mi rende insofferente, ma che non mi tradisce, quella musica che, con il suono di trombe e violini, mi apre la mente e mi porta in quel mondo che mi coccola e nel quale mi riconosco.

Anna

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Ricordi felici

Entro in una cattedrale attratta dal suono di un organo.
Mi vengono i brividi, l'emozione è tanta. Quel suono antico e familiare mi rigenera.
Mi riporta a quando ero adolescente al mio paese.
A quando il mio amico Michele suonava l'organo della piccola Chiesa.
Che grande maestria! Le sue dita volavano. I muri vibravano quasi riconoscenti.
Quei suoni arrivavano al cielo, mi toccavano le corde del cuore.
Uscivo arricchita dentro.
Quasi non sentivo il peso del mio corpo, talmente leggero che sembrava sospeso nell'aria.
Mi sembrava di toccare il cielo con un dito.
La mia pelle, centimetro per centimetro, era attraversata dalla felicità allo stato puro.
                                                                                                                          Anna

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Come ci si fidanzava a Monacilioni...

Ringraziamo Gianluca GALLUZZO, il nipote di Nicolino PILLARELLA (D' SC-TELL), per il bellissimo contributo che, molto volentieri, pubblichiamo. Lo scritto che segue è parte della mail che potete trovare in "CONTATTI".

Pur trattandosi di un dolcissimo ricordo personale e familiare, credo che molti potranno riconoscersi nel racconto che vorrei fare di come i miei prozii si sono fidanzati e poi sposati.
Mio zio Nicolino "d' stell" abitava con i genitori all'epoca in via San Paolo, verso la farmacia, mentre mia zia Luisella già abitava in via portella superiore 7, insieme alla madre Giovannina "colasabella" ed alla sorella; questa casa, dove io di fatto sono cresciuto pur vivendo a Roma, presenta una loggetta su via portella inferiore che affaccia mmez a' chiazz'.
Mio zio mi raccontava che aveva notato questa ragazza che gli piaceva, ma che le usanze dell'epoca non permettevano che un ragazzo avvicinasse una ragazza, quindi si limitava a passare e ripassare mmez a' chiazz', guardando verso il balcone, sperando di trovare la bella Luisella affacciata alla loggia; ma si vede che la bella Luisella si era accorta di qualcosa, visto che faceva in modo di starci spesso su quel balcone (mia zia anche dopo sposata a parte la messa non e' quasi mai uscita di casa, figuriamoci stare affacciata alla loggia!!!); immagino gli sguardi, il rallentare dello zio per far sì che il colloquio di sguardi durasse il più possibile; fatto sta che pur non parlandosi si intesero, perché mio zio passò all'azione e fece avvicinare la zia in chiesa da una sua sorella, Retta credo, onde sondare il terreno e sapere se i promettenti sguardi fossero sostenuti da intendimenti piu' concreti...
Ebbene, avuta conferma dalla sorella che in caso di presentazione in casa Lariccia, scopo fidanzamento e matrimonio, zia Luisella "c'aveva piacere" (cito testualmente), mio zio si presentò onde chiedere la sua mano.
Qui la storiella si sdoppia perché necessita una breve digressione sul carattere della futura suocera.
Una delle tante fortune che hanno caratterizzato la mia vita, oltre ad essere stato portato a Monacilioni per la prima volta a natale '68, quando non avevo ancora compiuto 2 mesi, e' stata quella di conoscere e godermi la mia bisnonna, Giovannina "colasabella", fino ai miei 11 anni; per noi in famiglia è stata sempre la " nonnina", piccola e minuta come si conviene alla denominazione familiare, ma mi raccontavano che in gioventù era "terribile"; rimasta orfana di madre da bambina, il padre non si risposò, quindi fece da madre alle sue sorelle più piccole, e solo dopo averle tutte sistemate e sposate, si sposò a sua volta quasi a 30 anni, età impensabile per l'epoca. Avute due figlie, Luisella e Antonietta, le ha cresciute da sola perché il marito era emigrato negli Stati Uniti dove addirittura morì.
Si intuisce quindi l'atteggiamento da cabiniere già proprio dell'epoca, accentuato dall'essere una donna sola a "combattere" con il futuro genero.
Viene cosi' fissato l'incontro e la conoscenza degli sposi a casa della mamma della sposa. Ovviamente non solo non si sono potuti neanche sfiorare, magari un bacetto sulla guancia, ma addirittura furono messi a sedere uno da un lato e una dall'altro del camino, zia Luisella rigorosamente con gli occhi bassi come ordinatole, con la nonnina ferreo ed incorruttibile arbitro dell'incontro che ebbe ad oggetto solo ed esclusivamente l'accordo matrimoniale.
Non ho ricordi precisi in merito, ma non credo che la nonnina fosse così contenta della scelta della figlia, però il marito dall'America aveva dato il suo assenso e questo bastava.
E fu così che il 14 dicembre 1931, con rito concordatario, i miei zii, 15 anni lei, 20 anni lui, si sposarono nella chiesa madre di Monacilioni, in un matrimonio durato fino alla morte di lui avvenuta nel marzo 2004, quasi 73 anni dopo. Un periodo lunghissimo, magari ogni tanto litigavano un po', ma si son sempre voluti molto bene e questa era l'atmosfera che respiravo in casa.
Tutte le persone a noi care, quando vengono a mancare, lasciano un grande vuoto; io li porto nel cuore e mi fa piacere, quando mi levo gli occhiali la sera prima di addormentarmi, poggiarli sui loro comodini che ora sono accanto a me e Vanessa.
Curiosita': tra i mei zii vi era una differenza d'età di 5 anni (lui piu' grande); la stessa differenza d'età ci sarà tra mio nonno Tonino e mia nonna Antonietta, tra mia zia Mena e il marito, tra mia madre Ninetta e mio padre e... tra me e Vanessa!

Gianluca Galluzzo

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A mamma Maria

La sera prima di lasciarci trovò la forza di recitare con un filo di voce la poesia che sua nonna paterna le insegnò da bambina:

Quando io nacqui mi disse una voce:
tu sei nato per portar la tua croce.
Ed io piangendo la croce abbracciai
che dal Cielo assegnata mi fu
Poi guardai, guardai
tutti portano la croce quaggiù.
Ciao Mamma.

                                         Anna                

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Nonna

Oggi, 17 aprile 2014, mia nonna Nina avrebbe compiuto 100 anni...

Andavo nell'orto con un plaid, il mio libro di diritto e la mia nonna Nina.
Lei zappava, io studiavo.
Ricordo con nostalgia quell'atmosfera di pace che respiravo, mia nonna parlava poco, amava tanto.
Con lei mi sentivo al sicuro.
Da bambina dormivo nel suo lettone, mi svegliavo e di colpo non la vedevo più.
Nella stanza accanto, davanti ad un lumino acceso, faceva  "l'ora di guardia", pregava nel cuore della notte,
con fervore ma senza ostentazione, per me un grandissimo esempio di vita, la sua semplicità mi inteneriva.
Il mio cuore impazziva di gioia quando ero con lei, non la sto idealizzando solo perche non c'è più, era proprio così.
Vorrei tanto amare i miei nipoti con lo stesso trasporto e la stessa dedizione della mia cara nonna indimenticabile.

                                                                                                                                                         Anna

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Quann iev quatrar

A mmez a chiazz,
u municip'j , u campanar,
u capp'llon d' sant V'cenz,
zi' R'cucc, zia Col',
u n'goz'j  d' zia Maria D'nat
e tant  bell maitunat'.
A bell pu' coll cu' sciatòn z'arr'vav
e ogni tant nu quatrar z'arruc'lav.
Quann iev quatrar
a ggent n'm sembrav
ne' ammussat e ne' preoccupat.
Ie' ver, pur allor
nu guaii arr'vav
però n't sentiv abbandunat.
Cakk'dun sempr t'aiutav.
Quann iev quatrar
a mmez a chiazz
ogni tant m'  f'rmav
p'rché d'a f'licità
u còr m' scuppiav.

                                          Anna Pillarella

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A mio padre

Folgore per me fuste un solo istante,
poi fredda e lunga notte, il tutto e il niente.
Or dimmi, andasti via o ti rapiron,
portandoti ad un cielo sconosciuto?

Invano ti ho cercato nella luce
e nella oscuritá di ogni tempo,
indifesa realtá, mia fanciullezza,
freddezza del che passa, guarda e soffre.

Non t’incontrai piú, né in luogo remoto,
disperato come assetato all’ acqua,
giammai ti ebbi dopo, te n’eri andato,
lasciandoci nella infinita assenza,
che dovemmo trascinare in vita nostra.

Un vuoto enorme solo riempito,
a poco per l’amore di mia madre,
sola e restía.
L’immagin tua in mia confusa mente,
sciogliendosi nel tempo e in penosa dimenticanza,
fecemi sentir mio, il tuo silente esilio.

Dovevi essere amore e fantasía,
guida esemplare, maestro, padre e amico,
eppur sol fuiste desiderio, pianto e pena,
assenza amara, progetto e amor perduto.

Marcata im me rimase la tua assenza,
sentimmi disminuito e abbandonato;
per te clamai poter del firmamento,
crebbe figura, indefinita e triste.

Dovesti esser fattor, luce dei miei occhi
e senza ritorno ti lasciasti andar via,
caricato di pene e dura assenza
fuggisti allor verso lo sconosciuto.

Nell’ alba del mio ser io ti cercai
ed una grigia sera ti perdetti;
mesto rintocco lento di campana
e triste percepí ch´eri volato.

Poco brilló tua luce nella infanzia,
che di te privo, scosso sopportai,  
ti spegnesti alla vita e dentro mio
rimase l’ ombra que mai piú fú luce.

Non é facil capir lo incomprensibile,
ancor meno, spiegar lo inspiegabile,
cuanto dolor nell’ anima ferita,
cuanta pena non poterci abbracciare.

Nella passione tua negato e vinto,
guardarci solo a volte da lontano,
per poi piangere sí penosa sorte
tombato nella disperazione,
cosciente della tua fine e sorda morte.

E un dí ebbi nozione chiara e forte
della tua sofferenza, e fatua pena,
sapendo che dovevi andar pur via
per sempre separato dai tuoi cari.

Ora che mi avvicino alla partenza,
con fede d’ incontrar cielo infinito,
mi sforzo per sognarti viso erguito,
ma solo noto una aureola rattristata
che ruppe ai trentatré la tua esistenza.

                                 Abiuso Giuseppe Nicola (Pino)
                                 1º di luglio 1999

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Ode al Molise

Lontana terra mia, región perduta,
Molise amato, monti, valli e fiori;
Semplice gente, attiva, fervorosa,
Di convivenza mantién tradizione.
Molise bello, prati ridenti al sole,
Messi  d’oro ondeggianti, alla veduta,
Paesi sparsi ovunque, desta gente,
Di pregi colma e di virtú si onora.
Amati muri, vento, pioggia, neve,
Solo sognati sveglio, notte o giorno,
Rivedo con nostalgico desío
L’ amata terra mia, region proibita.
Desiata speme, lontano suol perduto,
Paese che a ridosso di una ripa ,
Giú dal fiume corrente riguardato
E dalla Serra Spina ancor protetto.
Ruderi amati contemplando il cielo,
Che dall’ alto benedi con la visione
Di tanta rigogliosa e sempre pronta 
Contemplazione cara del Molise.
Mi lasciasti andar via ignaro e triste,
Veci vissute, sperando ritornare;
Ma tutto é invano, ed ancorato vivo,
Del mio fine aspettandoti alle porte.

                          Pino da Monacilioni
                          (28 marzo 1999)
                          Email: abiusopino@fibrtel.com.ar

Nota: Poesia scritta da un emigrante che nel 1949, cinquanta anni fa, costretto e spinto dal destino, partí da Monacilioni, si recó in Argentina a lavorare, formó famiglia, continua ad amare la sua terra, vive modestamente la nostalgía della lontananza che non offre possibilitá di ritorno, ma che sognando fa virtuali scappatine che gratificano la sua vita ed infervorano la sua lealtá al Molise e a Monacilioni.

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Un ricordo delicato

Caro papà,
ci siamo, l’autunno è proprio arrivato con il suo valzer di colori: nuvole rosse, gialle e colore del rame.
Gli ulivi sono zeppi di frutti, ho preso fra le mani un’oliva, l’ho stretta forte  pensando a quanto ci tenessi  alla raccolta delle tue olive e con quale orgoglio mi donavi il tuo olio. In qualsiasi cosa tu ti cimentassi, riuscivi in tutto, con il tuo rigore, la tua precisione, la tua passione. Uomo d’altri tempi.
Adesso ci osservi da una dimensione pura e da una percezione assoluta.
Ho messo la tua foto sul comodino, quella che ti avevo fatto nel lontano 1990, proprio un bell’uomo, un ex "bel giov'n", mi guardi con affetto e tenerezza. Prima di partire per il lavoro, ti saluto e ti dico sempre “arrivederci a questa sera papà". Ho cercato di memorizzare alla grande la tua voce, non vorrei mai e poi mai dimenticarla, sarebbe un bel guaio.
Sai papà, il numero di telefono di casa, il nostro collante, anche quello è volato via come il tuo cucchiaio preferito, quello non tanto grande, ma neanche  troppo piccolo. Ricordi quando me lo chiedevi ed io ti prendevo in giro? Tutto finito in pochi giorni, le tue e nostre abitudini, i nostri punti di riferimento importanti, il calore di una casa piena di ricordi, la vetrinetta fatta da nonno Tino, l’armadio con lo specchio, la vostra camera piena di specchiere da bambina mi catturavano, mi improvvisavo modella con le scarpe ed i vestiti di mamma, sfilavo e mi spiavo da tutte le posizioni, mi vedevo quadruplicata, che bel gioco, mi divertivo così tutta da sola.
La mamma, quando ha saputo della tua dipartita, ha reagito come un uccellino disorientato buttato fuori dal suo nido, è diventata ancora più piccola e fragile. Ricordi il calendario che ti avevo regalato a Natale, quello con le foto di famiglia? Nel mese di ottobre c’è la foto del vostro matrimonio. Siete raggianti come due fiori appena sbocciati, che strana la vita!
Purtroppo mamma è proprio andata fuori dal suo nido: in casa di riposo, così ha voluto, si sente meno sola e più protetta; ti piacerebbe moltissimo vederla con la sua tuta grigia, il foulard sulle spalle e gli occhiali inforcati: una vecchietta distinta ed elegante come piaceva a te: la tua regina.
                                                                                                                                  Anna

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A f'ntan du pont

A sèt e a nustalgij, nu jorn
Da te m’an r’purtat, vecchia f’ntana mì.
P’ rassaggià quest’acqu’
K’ p’ tant’ann m’à d’ss’tat
E n’zòl a mmè
Ma a tutt’ a ggent du pajes mè;
ma tu mò n’ scì cuntent, jì t’ vèd trisc-t,
e l’acqu, l’acqu n’ jè cchiù cumm a quell d’ nà vòt,
mò jess jè amar, tant da parè quell dù màr.
Fors sò i lacr’m che jorn dop jorn tu c’ jètt,
c amò pur a mmè m’ sc-tà p’aff’rrà nà sajett.
Tu t’è raggion, e cumm s’ t’è raggion!
Jè sc-tù s’lenzij d’ tomb k’ tutt t’ sc-tà tturn
K’ t’ fa jess trisc-t e scunz’lat
K’ pur u còr, u còr mè, p’ pòk nzà m’paurisc.
Scìn, da quann u’ progress
L’acqu dint i cas à purtat
Tutt t’an abbandunat.
Addov sc-tan, addov sc-tan cchiù i s’gnur’nèll
K’ m’niv’n a n’ghj’ l’acqu chi t’nell ?
Allòr jev tutt nà fesc-t:
chi allocca, chi cantav, chi r’dev
e d’ gioj tutt sc-ta vall z’arr’gniv.
V’sc-tit a ffesc-t , allegr, n’zembr currev’n
E cumm z’ turcev’n
P’ z’ fà nutà d’ ì nnammurat
K’ sb’rciav’n da ncopp a via nòv,
facenn’z a’ passijat;
pecchè allor n’z’ putev parlà azz’ccat:
nn ’è cumm a mmò ca cchiù c’ sc-tà a ggent
e cchiù z’ sc-vasc’lejn allegramènt,
e cchiù z’avvinchijn cumm l’ed’r z’ avvinchij…
At’ tèmp, f’ntana mì, at tèmp
E nè jì so cumm a cull d’ prim.
Mò n’c’ rattr’sc-tam,
dù passat parlam, pecchè cèrt vòt u passat
quann jè bbòn, ammant ù pr’sent
e c’ fa r’viv f’lic e cuntent.

                                         Ferdinando Coccaro

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U marrao'n

U marrao’n era un gioco che ci divertiva tanto.
Con la neve facevamo una piccola diga e aspettavamo che si riempisse dell’acqua della neve che si scioglieva. Poi aprivamo un varco e l’acqua in abbondanza scendeva giù.

Sciuccàv sciuccàv
p’ jurnat san
arrèt i vrit
z’ guardav sc-ta sul’nn’tà.
Sciv pur cuntent
ma  n’ finiv  mai!
Z’   vdev’ n    muntagn d’ név.
Z’ s’ntiv u fl’ppin  f’sc-cà.
Ogni tant cakk femm’n
cu maccatur sc-tritt n’cap
abb’rr’tat dint’ a nu sciall nir
v’div passà
cakk s’rvizij  jiv a ffà.
Po’ a cuscì... f’niv d’sciuccà
e v’div u sol turnà.
A nev z cum’nzav a squagghià
e tutt quant a mmez a vij
turnavam a sc-tà.
I  femmn m’bacc u sol
Ass’ttat p’z r’scav’là
ca cavze’tt a mman
r’cumnzavn a chiacchiarià.
E nu’, quatrarèll chi péd j’la’t
chi man fredd fredd
e cu nas rusc rusc,
u marraon c m’ttavam a ffà.

                                        Rita Di Cera

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A mia madre

Cért  sér
quann m’ r’t’rav
cà  luc  sc-tutat
v’cin a ciumm’ner t’ truvav.
Sc-tiv llà
V’cin a cullu  t’zzon
p’ t’  r’scav’là
e t’niv a cron mman  p’ pr’gà.
Cumm sciv bèll
pariv  na madunnèll !
ì  n’m’t’ pòzz scurdà
e d’allor m’ so miss a pr’gà.

                            Rita Di Cera

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Cantilena

Sedute sulle ginocchia dei nonni o dei genitori.
Ci prendevano le mani, ci dondolavano avanti e indietro e ci ripetevano questa cantilena...

Tacc  tacc
pan e lacc
ell u sorg
int’à matark.
Tóll  a mazz
e dallu n’ cap
nnù dà fort
ca t’è p’cca’t.

                 Rita Di Cera

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Michele Tucci, il Poeta

Alto, robusto, folti baffi bianchi, quasi completamente calvo, salvo una linea di capelli lungo la nuca da orecchio a orecchio, occhi chiari, volto sorridente, giacca grigio chiaro, cappello tipo borsalino, anch’esso sul grigio. Così ricordo Michele Tucci, il Poeta.
Di una intelligenza incredibile, autodidatta, scuole elementari, come lui stesso ci diceva, preparato in letteratura come nemmeno i laureati. Solo chi lo ha conosciuto può crederci.

Una volta, tra l’80 e l’81, seduti sulle panchine di cemento dietro la Cappella, aspettavamo un docente per un incontro di lavoro. Eravamo una quindicina di persone, alcuni laureati, gli altri diplomati.
In piazza c’era il Poeta e alcuni di noi raccontarono la sua storia a chi non era di Monacilioni.
Naturalmente increduli, sorrisero con sufficienza.
Con garbo invitammo allora Michele a parlare con noi e pregammo i colleghi di fargli una domanda qualsiasi di genere letterario. Ricordo che una collega gli chiese la Cavallina Storna…
Simpaticamente, Michele stette al gioco e non solo gliela declamò, ma spiegò per filo e per segno le origini della poesia, le motivazioni recondite che avevano indotto l’Autore a scriverla, ecc.
Rimasero letteralmente senza parole...Un altro suo pezzo forte era la Divina Commedia.

Ogni tanto spariva per lunghi periodi.
Quando tornava  raccontava di essere stato in Lussemburgo e con una mano prendeva dalla tasca interna della giacca un pacco di fogli protocollo a righe, piegati a metà, sui quali stava scrivendo un poema – con una grafia indecifrabile - dedicato alla “Granduchessa” del piccolo Stato; poi  metteva gli occhiali, montatura nera  tipo bachelite, con una lente sola, l’altra eternamente vuota.
Benevolmente esortato da qualcuno di noi, proseguiva nei racconti d’oltre confine e, puntualmente, si arrivava a “Peppe Tozzo” e  “Marocchino in Groppa” (di quest’ultimo almeno così io ho sempre capito il nomignolo, ma non sono certo): la spiegazione era che il primo era troppo basso e il secondo era un meridionale scuro di pelle. Questi due lo prendevano in giro: “Tu che sei un grande poeta, mi sai dire quale è la distanza tra la Terra e la Luna?”
E lui: "E tu che sei uno stolto, un cornuto e un pazzo, mi sai dire quanti peli ci sono intorno al mio c...?”
E giù una sonora risata del Poeta, quando lo raccontava.

Bella, poi, l’amicizia con Còl Leonor. Erano davvero molto amici, e si vedeva. A volte si sfottevano, ma sempre con il sorriso sulle labbra.
Michele a Còl: “Non più Dante, non più Carducci, solo il sommo poeta Tucci”…
Immediata la risposta di Còl, in dialetto: “E k‘ Dant e k’ Carducc, s’ tu t’è a cocc cumm a nù ciucc!”
E a ridere, loro e noi….

Ricordo anche il suo garbo nella frugalità del “pranzo” (sc-canat, provolone e birra, consumati al bar di “Giacummin”): “Volete Favorire?”, a chiunque entrava.

Anzi, a "quasi chiunque", perché alcuni non li  sopportava: i “maledetti saponari", li definiva.
Questa era una sua licenza poetica, come altre, tra le quali ricordo “Monacillo, borgo franato…”

Per un periodo provò a scrivere anche canzoni (“Il deserto, il deserto remoto…”) , che a volte intonava per scherzo in piazza con un giovane cantante locale.
Un'altra poesia era “Un passerotto cinguettava sulla finestra di casa mia...”, ma l’opera più nota è di certo “E tu cornuto dimmi…”
La recitava gesticolando con la grande mano destra chiusa a pugno tranne l’indice dritto e teso verso l’alto; la spiegava (“… un gregge è di almeno cento pecore…”);  la motivava (“... mi aveva incolpato ma non era vero …”).

Aveva preso parte anche alla seconda guerra mondiale, inviato in Nord Africa.
Scrisse a Mussolini, lamentandosi delle condizioni nelle quali si trovavano i nostri soldati. Quando lo seppero, i superiori lo misero al muro per fucilarlo: lo salvò l’ultima frase ad effetto che aveva indirizzato al duce: "Eccellenza, Iddio è di tutti, ma se è giusto la vittoria sarà nostra.”

Proverbialmente senza una lira, viaggiava in treno sempre senza biglietto perché “l’Italia saponara” gli negava anche la pensione di guerra che gli spettava.

Una salute di ferro nell’imponenza della sua statura;  perse la sua vigoria proprio quando, paradossalmente, aveva finalmente ottenuto la pensione.
Morì dove alloggiava: in una delle baracche di legno costruite dopo la frana, dove ora sorge il campetto polivalente, per cause non precisate. Era disteso a terra, faccia in giù, con una stufetta a gas accesa, forse per un malore o per monossido di carbonio, ormai chi può dirlo…

Non uno dei suoi scritti è rimasto, né una foto, tranne quella al Cimitero, dietro le prime cappelle sulla destra entrando…
 

E tu, cornuto, dimmi

E tu cornuto dimmi,
che male io ti ho fatto?
Il popolo lo sa
Che sei cornuto e pazzo.
Tu mangiator di talpe,
pastore senza gregge,
la tua consorte meretrice
in prigione mi voleva.
Una multa ho pagato,
diecimila sono state.

(…)
Col primogenito d’ignoto prodotto
Patate altrui lungi miravi
E poi rubavi...

Alcune parti mancano. Speriamo di poterle integrare...

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Detti contadini

Sciocc e mal temp fa... na cas dell'atr z'e' mal sc-tà

Nevica e fa brutto tempo... in casa degli altri è male stare
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A cannlor a vernat  è  for. Responn u m't'tor: "P jess cchiu'   s'cur, aspett fin a quann a foglj  da fiqu' r   è ross cumm a zamp du  vov".

Alla  cannelora l'invernata e' fuori. Risponde il mietitore: "Per essere piu' sicuro, aspetta fino a quando la foglia del fico e' grande come la zampa del bue.
____

Febrarell curt curt, si iurn m foss'r tutt,   faciarrij   j'la' pur  u vin dint a vott.
Febbraio corto corto, se avessi tutti i giorni farei gelare il vino dentro le botte.

                                                                                                        Inviati da Filippo Zarrelli

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Filastrocche mac'liunar

Filippo Zarrelli ci ha inviato una mail nella quale ricorda due filastrocche di Monacilioni, non so se sono intere o se sono solo una parte.
Però è un altro filone molto interessante delle "cose da salvare " della nostra "memoria locale".
Le trascriviamo invitando tutti a completarle se sanno altre strofe e ad inviarcene altre se di loro conoscenza.
Invitiamo tutti, in particolar modo coloro che sono all'estero, a scriverci,  nella lingua che preferiscono e, nel caso, provvederemo a chiedere o fare la traduzione , se occorre anche nel nostro dialetto.
Ecco le due brevi filastrocche: 

"Tocc cucchier che a Napl z' va'
prest arrivam, a tav'l z' va a magna'.!

     "Muscell, muscell, pan e cascell, pan e r'cott,
      tuff la bott... tuff la bott... tuff la bott."

 

Provate ad immaginare la scena :

il nonno, la zia, ecc. seduti, mettevano il bimbo sulle loro ginocchia, viso a viso, con le mani nelle mani e, recitando la filastrocca del "Cocchiere", simulavano il movimento che si faceva, sul calesse, con le redini per incitare il cavallo...
Scene viste e vissute, ora tornate nel ricordo, che solo a pensarci rievocano tanto di quell'affetto ricevuto...

 

P.S.  Mi è  venuta in mente una cosa: mio Padre quando ero piccolo me ne diceva una che mi piaceva tanto, però non la ricordo tutta.
Iniziava così:

"C'C'R'NELL T'NEV Nù MUL
JIV A NAP'L  SUL  SUL"
C'C'R'NELL T'NEV Nù CàN
MUCC'CAV LI CRI-SC-TIàN,
MUCC'CAV LI FEMM' N BèLL
EVVIV ù CàN D' C' C' R' NèLL

C'C'R'NèLL T'NEV Nà GATT
Kà L'CCAV TUTT ì PIàTT,
ì L'CCAV BBèLL BBèLL
EVVIV à GATT D' C'C'R'NèLL

(Cicirinella aveva un mulo,  andava a Napoli solo solo...)

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Ed eccone una intera , inviata da Mariavittoria Martino.

TRAN, TRAN, TRAN
PUZZ E F'NTAN
E JAM A ROM E LIMUSAN
E LIMUSAN E CIACCURDELL  (?)
E CACC L'OCCHJ ALLA CCHIù BELL
A CCHIù BELL Zè MMALAT
E FACEM'C A N'ZALAT

A  N'ZALAT CHIEN D'  OGLJ
E V ' à CHIAM  A   MAST' MBROGLJ
E MAST' MBROGLJ D'CEV A MESS
E K' CENT' PR'NC'PESS
E K '  CENT CAVALLUCC
E  K ' CENT MUSS  D' CIUCC .

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zia Còl Zaccas...

Un omaggio a zia Còl Zaccas, l'energica signora che molti ricordiamo. Tanto burbera, in apparenza, quanto affettuosa. Sembre con la mazza, che usava come bastone per appoggiarsi e per "minacciare" di fare silenzio se qualcuno parlava mentre suonava la banda durante la festa di Sant'Antonio, al quale era particolarmente devota. Per la festa allevava un maiale, u porc' d' Sant'Antonij, che poi vendeva. Si occupava poi anche di raccogliere l'offerta dell'olio di oliva: il ricavato delle vendite era destinato alla festa.


Autore della poesia è Emilio Martino.
Bella davvero: chi ha conosciuto zia Còl, leggendola, la rivedrà e la rivivrà con emozione!

E' stata inviata da Filippo Zarrelli che, evidentemente, ha avuto la stessa idea nostra e di Francescantonio Martino dall'Australia, come può desumersi da quanto scritto nei "contatti" di questo sito parecchi giorni fa.

C'RRIT è il bosco comunale Cerreto che si trova verso Sant'Elia a Pianisi.


Marianicol z'accas

P tutt-a vit
semp a ped nu c'rrit
a toll-i cepp e i taccarell
p r'scavlà i cas di puvrell.
Mo sta femmn so vist tutta sgrnat
pu pis ch p tant'ann ncap - a purtat.
R'curdannm quann tutt nzist e snell
cammnav leggia leggia cumma na craptell,
mo ca so v'dut
iust iust a so rcanusciut.
Iess s n'è dunat, m'a chiamat
e du temp d quann'ev giovn m'a parlat.
I p nu poch a so scultat, ma po chian chian m so rvutat
e na lacrim grossa grossa m'è scappat.
                                                       Emilio Martino

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U pajes mé

Nu temp, e mank tant luntan,
c'v'ttòl t' stenniv
du coll fin a n'copp u' chian
e cà Chiesa Matr
sovrasc-tat du campanar
l'orgoglj sciv d' tutt ì paisan.

Ma pò nu jorn na fran
t'à r'dott pegg
d' cumm se fuss sc-tat bumbardat
e tu, quasc v'r'gugnann't
i f 'rit e i lacr'm
cerk d'annasconn a' ì figghj té
k' r'vén da luntan,
k' sempr d' r'v'dert àn sp'rat.

Ma i figghij, quann sò figghj
n'z'  v'r'gogn'n maj dà mamm,
pur s' quesc-t jè vecchj e n'val'dat,
p'rchè z' r'cord'n quann p'cc' rill
da jess m'niv'n sempr accunt'ntat.

U'  temp' dékk, cumm a' quann
l'acqu du sciùm trov ' a' chiàn,
pàr  cà  z'  jè f'rmat
e a pàc dòm'n sovran.

E  jè quesc-t ch' ì figghj tè vàn c'r'cann
dòp cà pù munn
nà vita t'mp'sc-tos an' affruntat.

Lòr sò cumm all'acqu dù sciùm
k'à pr'c'pizij scegn dà muntagn
e n' vèd l'òr d'arr'và lladdòv jè nàt
p' truvà finalment
cùll r'pòs tant agugnàt .

                                                Ferdinando Coccaro

E' una poesia bellissima!
Complimenti e grazie a Ferdinando per averci permesso di pubblicarla!

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Spranz e cuntntezz

Quann pens u passat m ve sempr nu poch d nustalgia.
M rcord quann bastav a spranz a r'ngnirt u cor d'all'gria.
Tant'ann so passat
e mo anzian so dvntat
e u temp da cuntntezz n'è mai m'nut,
ma spranz manch s n'è ghiut.

E s pur cacch vot sent u cor ch chiagn,
i manch m lagn,
ma chiud l'occh,
m'attur i recch
e sonn cumm allor
ca cuntntezz ada-rrvà ancor.

                                                        Emilio Martino

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I t'nell

Lina, Mena e Pina vanno a prendere l’acqua Na F'ntan  du Pont.
Ragazze in “età da marito”, giovani e belle, aiutano le mamme nelle faccende domestiche quotidiane.
La prima incombenza della giornata è quella di andare a prendere l’acqua, quella buona per bere e cucinare, con le tinelle di rame.

Vanno allegre Lina, Mena e Pina: l’acqua è l’occasione per incontrarsi e raccontarsi tante cose mentre percorrono la strada per arrivare alla fontana. Il freddo pungente del mattino non le spaventa, strette nelle loro mantelline, ognuna tenendo la propria tinella per uno dei due manici.

Per la strada, oltrepassata A N'vèr, incontrano altre amiche che ritornano al paese con le tinelle già piene e che le salutano chiassosamente. Qualche volta, per prolungare la “scappatina da casa”, finiscono per gettare via quell’acqua già conquistata per ritornare alla fontana a fare ancora qualche chiacchiera.

- Mò, iam’m ià, ka fa fridd, è cadut pur à j’lat e tu Lì, camin d'ritt - cinguetta Mena.
Lina è la più piccola delle tre amiche, ma l’età poco conta quando le necessità impongono il concorso di tutti i membri della famiglia al duro lavoro per la sopravvivenza quotidiana. E alla fontana
dovranno tornare più volte durante la giornata.

- Steng d'ritt Mè, numm sfr’qu'lià, avrei tante cose da dire io…..
- E che hai da dire sul mio conto? Io sono fidanzata a casa, mica come te che fai gli occhi dolci
a Giu-uann che invece a Pina guarda!

Pina, chiamata in causa e un po’ piccata: - E mò a me proprij m' guard Giu-uann - risponde alzando gli occhi al cielo con espressione sognante e un sorriso malizioso sulle labbra.

- Iè ver - risponde Lina sospirando - Ma mò pensiamo invece a cosa vogliamo metterci per Natale, io ho trovato int' a cash k'  sc-tà nu sutta’n un vestito di mia nonna, con il colletto di pizzo fatto all'uncinetto.

- E che vuoi fare con un vestito vecchio... - rispondono in coro Mena e Pina.

- Nov u facc d’v'ntà, sarò bella alla messa di Natale. E che volete, con 7 bocche da sfamare, in casa noi tanti lussi non ce li possiamo permettere e quest’anno il grano non è stato neanche abbondante. Sempre nà p'gnat di fagioli ci mangiamo e pure a pizz d' randinij ka m'nestr. Ma i vestiti passano dalla nonna alla mamma o a me e dopo a Netta so-r’m'. Però a-uann pure un bel presepe voglio fare ka mu’fàlann era proprio poverello, pochi pastorelli, un paio di pecorelle... Ci venite con me al bosco a fare a carpij? E ci facciamo pure nu manocchij d' cepp, già che ci siamo, ché ne servono per accendere il fuoco -

- E come no - risponde Mena - Ma quante cose devo fare... Devo ammassare la farina per il pane, portarlo al forno, poi i panni da lavare al fiume, poi ripulire tutto il rame della ramèr, poi portare il mangime alle galline e a vro’d ai maiali e dopo da Maria pure devo andare, per imparare a cucire, ché devo cucire e ricamare tutto il corredo della dote.

Le tre ragazze tacciono un momento, con il medesimo pensiero per la testa: imparare a cucire, fare i lavori di casa, qualche volta andare anche in campagna a zappare, ma nel cuore un sogno... Un corredo da gran signora da portare in dote ad un baldo giovanotto che le porti all’altare.

Alla fontana l’acqua zampilla cristallina, riempiono le tinelle. Fatta la spara con la mappina, mettono le tinelle in testa e ripercorrono la strada verso casa. Incedono con passo maestoso, da regine, attente a non sbilanciare le tinelle ché non si perda neanche una goccia di quell’acqua così preziosa. E' tardi, si deve preparare il pranzo.

Sono belle da vedere tre ragazze che camminano fiere con le tinelle in testa mentre raggiungono le prime case del paesello, nel sole pallido del mattino d’inverno.

Maria Teresa Grano

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A Fndan du pont

Quann m sent trist e appassiunatm
ven semp a ment i cos du passat.

M rcord quann annascus sott a nu p’rton
aspttav ca guagliol m guardass d’arret i vrit du bal’con
o quann aspttav ch du vespr sunass a campanell
p v’derl arrvà a f’ntan ca tnell.

Mentr iess da f’ntan l’acqua tullev
u cor m’pett fort fort m sbattev.

I a guardav, ma manch i parlav,
c stav troppa gent e i m n truppiav.

Tanta temp è passat
e a cullu post sò turnat.

Mo a f’ntan è rmast sola, abbandunat,
ma quella scena mment m'è turnat.

                                                 Emilio Martino

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Ricordi di infanzia

Eravamo lì a pazzià, a ridere ed a scherzare, sedute sui muretti sotto il sole cocente d’agosto.
Eravamo lì a fa a cecia-c-là, a zumpà cà zok  e a cal-ca-cio-pp.
Eravamo lì ca t'n'llucc  n’cap, pa vij da f'ntan du pont, l’acqua abballav, mommò  z’arrammucav
Eravamo lì in attesa della festa p’c’ mett’ a vesta nov.
Eravamo lì ad ascoltare le immancabili raccomandazioni dei grandi che ci dicevano
                    sc-tatt accort,  sa!
Eravamo lì quando il grano era pronto per la mietitura a via nova si accendeva di sorprendenti
                    piccole luci, i luc-matteij.   Noi le afferravamo tra le mani chiuse a pugno. Esse sotto
                    un bicchiere la notte facevano compagnia ai nostri sogni.
Eravamo lì pà via nov ,  a guardare in lontananza le luci di Campobasso e a sospirare immaginando
                    luoghi diversi “al di là della siepe”.
Eravamo lì a desiderare altri mondi in attesa di qualcosa o di qualcuno che cambiasse la nostra
                    vita.
Eravamo lì in attesa che i cieli sopra di noi cambiassero colore.
Eravamo lì in un’isola felice, ma nella nostra inconsapevolezza non ce ne rendevamo conto.

Monacilioni, quanto hai dato a ciascuno di noi, con il tuo essere un paesino orgoglioso, con un
                      campanile che svettava alto come i nostri desideri e le nostre ambizioni.
                                                                                                        
                                                                                                                                                 Rita Di Cera

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Ricordi di Natale...

Usanze, attività e tradizioni del nostro paesello in un'era del passato

I ricordi mi trasportano indietro ai giorni della mia infanzia e fanciullezza, quando il Natale nei nostri paesi non era ancora influenzato dal ritmo frenetico del consumismo odierno. Lo spirito del Natale era dimostrato nella sua pienezza religiosa, familiare e spirituale.
Con questo racconto cercherò di rievocare il fascino, ancora intatto, del significato familiare.
A quel tempo il mese di Dicembre prendeva un colore particolare di una gioia spontanea con un tocco di sogno fascinante, tipico dei bambini.Ogni giorno sembrava avere un rituale. Noi bambini eravamo attivamente coinvolti nell'allestimento del presepio con la raccolta del muschio.
Poi c'erano le tre novene: dell'Imacolata, di Santa Lucia e quella di Natale. Siccome le Novene si dicevano presto all'alba, nella mia mente impressionabile di bambino acquistavano un aurea surreale.
L'attesa del Natale era una festa di per sé, da godere in tutte le sue sfumature, insieme agli odori e ai sapori che annunziavano l'arrivo della festa. Mi sembra di sentire, ma forse e' solo un'eco nel mio cuore, il profumo delle bucce di arancia bruciate nei focolai o bracieri, e l'odore delle castagne abbrustolite. Gli zampognari discendevano dai monti del Molise ed Abruzzi ed il suono caratteristico delle zampogne riempiva le strade ed i vicoli del paese, tra la gioia e l'entusiamo di noi bambini che seguivamo gli zampognari. Vivi sono ancora i suoni dei canti e dell' organo. Vivi sono i volti dell'organista e dei cantanti: Zi Ricucc, Nicolin de Stell, Brunucc Iennar, Librucc Seppanicol, solo per menzionarne alcuni. Natale non era semplicemente una festa come le altre, ma era LA festa, quella che coinvolgeva tutta la famiglia: era la festa che senza esagerazione si preparava per un intero anno.
Le visite erano parte integrante del Natale. Una sera da uno, una sera dall' altro ed una sera in casa propria, le famiglie e gli amici si riunivano in gioia ed allegria. Le donne affacendate a passare intorno   i mpapatell e le scruppell, i biscotti, le noci e le mandorle; gli uomini ad arrostire le castagne e riempire i bicchieri di vino. A notte, quando tutto era silenzioso, in lontananza spesso l'incanto della notte veniva  spezzato dal suono di un organetto e da voci che intonavano una maitunata.
La vita allora era una vita semplice, idillica, pastorale, tranquilla, serena, pacifica e soprattutto gioiosa. Giorni di Natale di un'altra era.
Spero che i miei ricordi non vi abbiano annoiato, e spero che il mio racconto riaccenda la fiaccola nel cuore di molti altri. Dal profondo del mio cuore, auguro a tutti voi vicini e lontani Pace, Gioia, Salute e Prosperità. Buone Feste, Buon Natale e Buon Anno.

FilippoZ, Florida, USA

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Il ricordo della Settimana Santa

Ancora vivido nella mia mente è il ricordo della Settimana Santa.
Ogni anno, la settimana precedente la Domenica di Pasqua, cominciavano i rituali perpetuati nella tradizione e liturgia della Chiesa. Le donne erano affacendate ad allestire il sepolcro (u sepulkre): l'altare veniva decorato con veli e tendine di molti colori, luci e una grande quantità di fiori. Il Giovedi Santo, nel pomeriggio, cominciavano le funzioni sacre. "I Fratell", che rappresentavano gli Apostoli, arrivavano in processione e, secondo la Liturgia Cattolica, comiciava il racconto della Passione di Cristo.
Normalmente era un Monaco, Francescano o Cappuccino, che raccontava la passione. La Chiesa era affollata, usualmente quasi l'intero paese era presente: anziani, giovani e bambini, tutti partecipavano.
Il mio ricordo preferito è quello dei "scurdisch", che signica: 'All'oscuro". Il Giovedi e il Venerdi Santo si raccontava la Passione, l'Agonia e la Morte di Gesu Cristo e, al momento del trapasso, le luci si spegnevano e si facevano i "scurdisch", un tremendo baccano creato con racanelle, tric-trak e tip-tap, strumenti di legno che ricreavano il terremote e le tenebre che occorsero sul Calvario.
Purtroppo questo rituale oggi è scomparso, ed è questa la ragione per cui ne voglio conservare il ricordo.

Filippo Zarrelli

Grazie a Filippo Zarrelli per i bellissimi ricordi che ha voluto regalarci!

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Un bel ricordo...

Ho un bel ricordo del mio primo Natale a Monacilioni, appena tornata dal Venezuela dove eravamo emigrati.
I lavori per il presepe ebbero inizio con largo anticipo. Mio nonno ed io davanti al camino acceso, un bel fuoco scintillante, facevamo le casette con il cartone delle scatole delle scarpe. Poi il muschio verde verde e profumato, rubato al bosco.
La Madonna, San Giuseppe, il Bambinello ed i pastorelli erano in soffitta, sempre gli stessi ogni anno, mio nonno ci teneva alle statuine che erano state di suo padre e prima ancora di suo nonno. Un pò malandate a dire il vero, ma tanto belle.
Qualche ramoscello per fare gli alberelli, i sassolini bianchi per le stradine, un pò di paglia per accogliere il  bambinello, una ciotolina di terracotta con un poco d'acqua era la fontanella. Poi la stella cometa tutta bianca chè non avevamo modo di farla d'oro o d'agento come si usa ai tempi odierni.
Il presepe era pronto, si arrampicava sulle scale che dalla grande cucina portavano al piano di sopra, in quella casa antica, mai dimenticata.
Ogni giorno si aggiungeva un pastorello, una pecorella, qualche gallinella, non tutti insieme, il divertimento era vederlo crescere un poco alla volta, quel presepe tutto nostro.
Poi arrivò finalmente la magica notte e... sorpresa, cominciò a nevicare, proprio come nelle favole.
Non avevo mai visto la neve, ne rimasi incantata. Quei fiocchi che scendevano lenti lenti si andavano a posare su ogni cosa, tutto diventava bianco, tutto era diverso e nuovo ed il paese sembrava un grande presepe.
Suonarono le campane a festa, grandi e piccoli ci avviammo alla Messa di mezzanotte, tante le voci
nella notte divenuta all'improvviso luminosa in tutto quel candore. Saluti, auguri, andiamo è nato il Bambinello.
Che Natale, quel Natale vero.

Maria Teresa

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Paese mio

Un ricordo è quello della collina
là dove si abbracciano le centenarie case
tutte insieme strette intorno al campanile.

Una foto ingiallita
le viuzze che scivolano nei campi
dove la terra si nutre del sudore contadino.

E la solitaria secolare quercia
rimane salda immobile
a far ingiallire le foglie quando è più fresca l’aria
a farne nuove quando il vento tiepido annuncia primavera.

E' il luogo di partenza, è il luogo del ritorno
il monaco e il leone scolpiti sulla pietra antica
la piazza la Chiesa il fumo dei camini
il monumento ai caduti, il monumento all’emigrante

Ti ho lasciato paese mio
una speranza nella valigia
la memoria avvinghiata alla radice
ho bevuto le lacrime sono partita
per patrie non mie

Straniera io
mai ho perduto quella fotografia
mai ho spezzato il filo
la mia tristezza è un pensiero d’amore per te
paese mio

                                                          Maria Teresa Grano

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Cola

Ve lo ricordate Cola il banditore?
Il suono della trombetta, l’annuncio. Metteva allegria, Cola, con la sua voce altisonante, mentre annunciava la novità della giornata. Comunicava, Cola, con la sua voce e con la sua persona. Vera, genuina. Cose di altri tempi.

  • Dall'annuario di Santa Benedetta del 1981
  • Un caro ricordo di Cola
  • Un caro ricordo di Cola
  • Un caro ricordo di Cola

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A mmez' a chiazz'

Zia Besc: Co', p' piacer duman r'vè Cicciarell da Mer'k, s' pù l'và i randinij  du marciappied.
Zia Col: U marciappied jè d'  tutt quant e jì  n'n lev n-jent.
Zia Besc: Sci sempr a sol'ta disp'ttos.

In quel momento passano Ngekk  e Tr'sin'  sul mais spostandolo  leggermente.

Zia Col: brutt puzzlent e vrett ,  n'n tuccat i randinij.
Ngeckk:  U marciappied jè d' tutt i maciliunar e n passam ddov c' par e piàc.

Dal balcone si affaccia Z' R'cucc (l’organista) che con un grido richiama tutti all’ordine.
Alle ore 16 arriva in piazza la sposa.
La mamma della sposa: Zia Co', p' piacer r'tir i randinij, fra poc arriv figghjm.

Qua n'n z r'tir n-jent.

I confetti vanno a finire in gran parte su tutto il mais.

Zia Col: Madonn sta cazz d' zit m’ha rruv'nat tutt cos. Cà pozz'n ambenn!

 

Storia gentilmente raccontata da Anna Pillarella

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Ninna nanna...

Ninn ninn ninnala nonn
u lup z’à magnat  a p'qu'rell

z’à magnat  k tutt  a lan
e u p'qu'rar mò stà ka mazz  mman

ninn ninn ninna ninnarell sta figlia mi
mo z vò fa u sonn

ninn ninn ninna ninnarell sta figlia mi
a mamm z'a tè ch’è tropp bell

ninn ninn ninna ninnarell