Parlano i centenari

Il libro di una ricercatrice di origine molisana traccia un’analisi sociologica della nostra regione e della nostra gente, ricostruendo un quadro esistenziale e culturale sulla base dei racconti e dei ricordi di un campione di anziani che hanno vissuto da protagonisti tutto il ‘900. Tra le testimonianze dei “centenari” c’è anche quella di una nostra compaesana (vedi foto in calce all’articolo)

Alla ricerca di documenti, materiale e spunti per esplorare la storia e lo spazio della nostra regione che, per diversi e ovvi motivi, esercita su di me una grande fascinazione, non potevo non fare tappa, durante l’ultima vacanza che mia moglie e io abbiamo trascorso a Monacilioni, al mercato di corso Bucci a Campobasso.
Ricordavo di aver curiosato in passato tra le pubblicazioni in mostra su una bancarella o nella vetrina di un’edicola-libreria lì vicino, ma il giorno in cui ho deciso di partire “in missione”, però, la bancarella non c’era, così mi sono subito diretto all’edicola. Non ricordavo di aver mai visto l’adesivo applicato sulla porta di ingresso ad altezza occhi, forse perché apposto solo in questi ultimi anni. Fatto sta che mi ha messo di buon umore e ben predisposto all’esplorazione degli scaffali: racchiusa all’interno di un triangolo rosso come quello dei segnali stradali di pericolo, la scritta sull’adesivo diceva: “La lettura provoca cultura”. Come si fa a non essere d’accordo? Oggi leggere è diventato un’azione davvero molto “pericolosa”...
La fortuna ha voluto premiarmi mettendomi sotto gli occhi due libri bellissimi: “Il Molise dalle origini ai nostri giorni” (Palladino Editore, 2006), ristampa anastatica dell’opera completa di Giambattista Masciotta del 1914, e “Parlano i centenari, vita e valori della gente molisana del ‘900” (Cosmo Iannone Editore, 2005), un saggio di Angela Amoroso.
Per parlare del primo, data la sua mole (circa 1900 pagine in quattro volumi) mi sarà necessario un po’ di tempo, ma nel frattempo posso anticipare che, nel secondo volume, c’è un capitoletto di 6 pagine interamente dedicato a Monacilioni. Del secondo libro, invece, vorrei dire qualcosa subito, perché è stato una bellissima e piacevolissima scoperta…

L'autrice
Angela Amoroso è molisana di Petrella Tifernina e vive a Milano ormai da molti anni. Laureata in Economia e Commercio, si è dedicata fin dall’inizio della carriera alle ricerche di mercato, fino a quando ha fondato un istituto che ha poi diretto per trent’anni. Insieme a questo impegno professionale specifico, spinta dall’attaccamento alle sue radici e dall’amore per la sua gente e la sua terra, Angela ha anche esplorato ambiti più squisitamente culturali, e lo ha fatto con un taglio originale davvero interessante. Credo sia possibile affermare che, seppur basata sulla “aridità” dei numeri, l’analisi antropologica e sociologica che Angela ha saputo condurre è stata capace di cogliere con grande sensibilità i tratti caratteristici e caratteriali della nostra regione e della gente che la abita.
Attraverso la ricostruzione del percorso di vita di un campione di persone di diversi paesi della provincia di Campobasso, scelte tra quelle più vicine al centesimo compleanno o che addirittura l’hanno superato e che hanno vissuto da protagoniste tutto o quasi il ‘900 – il secolo dei mutamenti sociali, economici e culturali accelerati come mai prima nella Storia – l’autrice scopre e ci rivela come, quanto e con quali conseguenze i tempi abbiano influenzato e inciso sul carattere e sulle tradizioni della popolazione molisana. In qualche caso – aggiungo io dopo aver letto il libro – si potrebbe forse anche constatare, al contrario, come la cultura e le tradizioni della gente molisana, che emerge dal ritratto come particolarmente forte e coesa, siano state capaci di incidere sui tempi.

L'indagine sociologica
La ricerca, basata sulle testimonianze di nostri corregionali nati a cavallo del 1900, ma che abbracciano con i loro racconti il tempo della generazione precedente risalendo quindi fino all’ultimo quarto dell’800, restituisce com’era prevedibile l’immagine di una popolazione legata ai valori tradizionali: la terra, il lavoro, la famiglia, la comunità paesana e una spiritualità robustamente fondata sui principi della religione cattolica.
La lingua parlata è ovviamente il dialetto locale; la metà del campione è analfabeta, e la maggior parte di questa metà sono donne, ma bassa è in generale la scolarità, anche se non manca l’eccezione di un medico e tutti gli intervistati auspicano per i figli e i nipoti un più alto livello di istruzione. Sul piano del lavoro e del posizionamento sociale, la maggior parte del campione proviene da famiglie di braccianti, pastori, mezzadri o coltivatori diretti; alcuni sono artigiani, pochi i commercianti. Solo sei donne su 20 sono casalinghe, un dato che ci dice come il campione sia ancorato alla terra, ai suoi ritmi e alle sue fatiche.
Ma al di là dell’aspetto meramente statistico, ciò che più ha mosso la mia curiosità nella lettura del lavoro di Angela è stata l’analisi degli aspetti valoriali che, a mano a mano, sono emersi dalla sua ricerca e dal suo racconto. Io credo che questa curiosità sia l’effetto della ricerca interiore che ognuno di noi fa delle proprie origini, con più o meno trasporto ed emozione, e risponde al bisogno più o meno consapevole di rintracciare il passaggio dei nostri bisnonni, nonni e genitori che hanno preceduto il nostro. Riscoprire quel passaggio, identificarlo e riconoscerlo, ci aiuta a ritrovare il nostro animo più autentico, a dare un nome ai nostri impulsi più profondi, a “riconnetterci”.

Il sistema dei valori
Neanche a dirlo, l’aspetto valoriale comune a tutti gli intervistati è la terra, che emerge con forza e in modo indipendente dal mestiere svolto nella vita. Nessuno è disposto a tagliare il filo che lo lega alla terra, e tutti esprimono il desiderio di conservare anche solo un piccolo appezzamento per coltivarlo. Il legame con la terra è rassicurante: come molti hanno sperimentato in tempo di guerra, anche in caso di drammatica necessità è in grado di allontanare lo spettro della fame e garantire l’essenziale.
Ma per ciò che emerge dai racconti dei nostri “vecchietti”, la terra non ha solo un valore materiale, e non ha a che fare solo con la sopravvivenza: va molto oltre e costituisce una sorta di afflato, un legame che ricorda in qualche modo quello dei sudamericani con la “Pachamama”, la Madre Terra.
Un altro valore che la ricerca mette in luce è la comunità, intesa come “storia collettiva”, sostenuta da una mescolanza tutto sommato positiva di sentimenti religiosi e senso civico. A fare la storia di ogni singola comunità paesana concorrono sempre sia la tradizione religiosa che l’impegno civile, il più delle volte senza stridori o conflitti manifesti. Ovviamente non mancano le eccezioni e soprattutto non sono mancate in passato, quando forse furono più legate a fenomeni di respiro nazionale – o addirittura extra-nazionale – che locale.
Per quanto riguarda il ruolo e l’importanza del lavoro, tutti gli intervistati si dichiarano certi che non si tratti solo di un mezzo attraverso il quale soddisfare necessità materiali, ed è invece avvertito più come strumento di rappresentazione di sé stessi e di sé stessi nella comunità. Sicuramente, quello molisano è un popolo di grandi lavoratori che non si arrendono alle difficoltà, tenaci spesso fino alla testardaggine. Per loro, il lavoro è uno stile di vita, inculcato dai genitori nei figli e considerato come motore della società.

L'emigrazione
La presenza nel libro di un lungo capitolo dedicato all’emigrazione non può sorprendere. Si stima che oggi i molisani nel mondo siano oltre i due terzi della popolazione residente nella regione. Nella maggior parte dei casi, la loro è stata un’esperienza di successo in virtù di una dimostrata capacità di adattamento che però non ha mai definitivamente cancellato la traccia delle origini. Certo non sono mancate rotture e lacerazioni che hanno messo in difficoltà le famiglie e le comunità di provenienza, ma il sistema dei valori non ne è uscito sconfitto e, anzi, qualche volta sembra addirittura essersi arricchito e rigenerato, in chi è partito e in chi è rimasto. Un fatto probabilmente dovuto alla fierezza e al rispetto per sé stessi e per gli altri, tratti tipici della nostra gente. Tra i molisani trasferiti all’estero raramente si sono evidenziati sentimenti di inferiorità e ostilità, o situazioni di ghettizzazione e quindi di assoggettamento e perdita dell’identità culturale, o peggio ancora di devianza criminale. Presso chi è rimasto, invece, resta naturalmente il dolore della separazione e la malinconia per il timore di non riuscire a riunire la famiglia.
In tutti i territori del Molise caratterizzati da forte emigrazione si verifica il fenomeno degli episodici ripopolamenti in occasione delle ferie da parte dei nativi che abitano lontano, richiamati dalla nostalgia per i luoghi e per le tradizioni forse più ancora che per la famiglia. I ricordi delle atmosfere, dei giochi, delle ragazzate, dei profumi e dei sapori, rimangono vivi e agognati come l’aria. Quando rientrano dopo anni di distacco, gli “expat” sembrano bambini persi in un negozio di giocattoli, si aggirano per le strade con il naso all’insù a cercare nei segni delle case e nell’aria i ricordi più intimi. Se capitano in occasione delle feste patronali, molti di loro non riescono a trattenere le lacrime. Tra i molisani, forse più che tra altre popolazioni, si riscontra un forte attaccamento agli scenari delle origini, e “ogni scusa è buona” per tornare, se è possibile.

La solidarietà
Secondo il racconto degli intervistati, il sistema valoriale caratteristico della nostra gente, basato su principi essenziali e semplici e per questo chiari e solidi, è alla base della sua storica “resilienza” – un termine oggi molto abusato – che ha permesso di superare anche i momenti più bui della guerra. L’accoglienza, la solidarietà e la sostanziale coesione delle comunità hanno costituito in quelle occasioni un’importante forma di difesa, in qualche caso estesa anche agli sfollati da altre regioni d’Italia che, terminata l’emergenza bellica, hanno poi scelto di restare.
A proposito della guerra, mi piace riportare l’esperienza di un intervistato che, avendo assistito al passaggio dei due eserciti stranieri, ai saccheggi, alle prevaricazioni sui civili e a ogni tipo di brutalità, libera il suo ricordo e attribuisce ai tedeschi, insieme alla “crudeltà militare”, anche una certa “serietà di fondo”, mentre invece accusa gli alleati di “amoralità”, una categoria particolarmente aborrita dalla sua cultura e dal suo vissuto.

La tradizione e la religione
L’eredità etica e della fede tramandata dai genitori e dai nonni ha lasciato una forte impronta sugli intervistati, ma nelle comunità molisane permane ancora oggi senza per questo alimentare la percezione di anacronismo spesso dettata da certo progressismo. Anzi, nel loro vissuto, l’impressione è che, in un mondo sempre più laicizzato e secolarizzato, qualcosa sia “andato storto”, e il desiderio è semmai quello di una restaurazione dei valori. Nessuno, però, ha anche solo evocato o fatto allusioni a superstizioni, fascinazioni o riti magici, presenti invece in altre culture arcaiche. La religione fornisce dunque la cornice simbolica e gli elementi che rafforzano il sistema dei valori, alla stregua di quanto affermò il grande antropologo Durkheim: “Il sacro è la grammatica profonda della società e la proiezione ideale che la società fa di sé stessa”.
Ad eccezione di un caso che comunque sfugge a una rigida categorizzazione, tra gli intervistati non si rilevano testimonianze significative di ateismo o anticlericalismo.
La cultura cattolica non è vista come retaggio tradizionale e “passatista”; al contrario, quasi tutti gli intervistati le attribuiscono una validità permanente e sono convinti che i valori religiosi costituiscano una guida anche per le generazioni future, e che l’istruzione e la conoscenza non siano in antitesi con essi, ma anzi ne aiutino la migliore comprensione.

La famiglia
Il fatto che, quasi all’unanimità, gli intervistati si dichiarino contro il divorzio, è forse la conseguenza di quanto detto: il matrimonio è un impegno davanti a Dio, ma anche da un punto di vista più laico è considerato un legame indissolubile.
A proposito della famiglia, che secondo quanto emerge dalle riflessioni dei nostri “centenari” resta l’istituzione centrale della società, prevalente su ogni interesse egoistico, l’autrice del libro ci regala una riflessione molto bella mentre smonta la tesi del “familismo a-morale” formulata dal sociologo statunitense Edward Banfield nel suo saggio “Le basi morali di una società arretrata” (Editore Il Mulino, 1976).
Banfield trasse spunto dai suoi studi condotti sul campo nel corso di un viaggio nel Mezzogiorno d'Italia, più precisamente in Basilicata, e ipotizzò che certe comunità sarebbero arretrate perché la loro cultura presenta una concezione estremizzata dei legami familiari che va a scapito dell'interesse collettivo. Secondo lo studioso, gli individui agirebbero secondo una regola non scritta che li porterebbe a perseguire unicamente obiettivi di breve termine utili per la propria famiglia e non per la comunità, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Dunque: “familismo” perché l'individuo mira solo all’interesse della propria famiglia nucleare e non a quello della collettività, che richiederebbe cooperazione tra non consanguinei; “a-morale” perché le categorie di bene e male si applicano alla sola cerchia familiare, e non agli altri individui della comunità. Un’a-moralità, quindi, che non avrebbe comunque nulla a che vedere con i comportamenti all’interno della famiglia, ma piuttosto con l'assenza di ethos comunitario, ovvero di relazioni sociali etiche tra le famiglie e gli individui all'esterno di esse.
Ebbene, Angela Amoroso, invece, riscontra nel tessuto sociale evocato dai nostri centenari evidenti tracce di coraggio, speranza e pazienza nell’ottica, sì, di vivere il presente, ma soprattutto per costruire il futuro giorno per giorno, come a onorare in ogni occasione una sorta di giuramento di fedeltà alla propria identità, anche nelle situazioni difficili.
In contrasto quindi con l’idea di Banfield di una comunità arretrata e ferma, Angela ricava dalla sua analisi l’immagine di “un popolo impegnato non tanto a salire, quanto a camminare”. Il denaro in sé e il successo economico non sembrano essere stati i principali valori per i nostri centenari: c’è rispetto per il denaro come frutto del lavoro e c’è un diffuso senso del risparmio come promessa di miglioramento della qualità della vita, ma la ricerca non registra tracce di discordia per ragioni di interesse e nessuno mitizza la ricchezza materiale o è preda di avidità di possesso come quella che si ritrova, ad esempio, nell’ossessione per “la roba” di Giovanni Verga. Sul piano sociale, poi, le relazioni etiche esistono eccome, e sono testimoniate dai numerosi racconti di casi di solidarietà, per buona pace di Banfield.

La vecchiaia
Molto interessante è anche il rapporto con l’avanzare dell’età: per la totalità del campione degli intervistati gli anni sono trascorsi in modo assolutamente naturale. Dai racconti non traspare nessuno di quei segnali traumatici tipo l’emarginazione, l’abbandono o lo svuotamento del proprio ruolo, purtroppo tipici presso gli anziani di altre società, in particolare quelle più urbanizzate. La comunità paesana sembra contribuire a mantenere alta l’autostima e, quindi, ad “amarsi” per ciò che si è: vecchi, e a guardare con indulgenza ai segni visibili del tempo che trascorre, un atteggiamento davvero in antitesi rispetto all’ideologia che ci considera “adeguati” solo finché consumiamo.
Alla domanda se la vita possa avere ancora il suo fascino anche dopo gli ottant’anni, i nostri centenari rispondono in modo pressoché unanime. Era facile aspettarsi una risposta positiva, ma ciò che risulta invece inaspettato è il tono entusiastico di chi arriva addirittura ad accostare la vecchiaia a una nuova fase, ricca di scoperte gioiose come quella giovanile. Emerge l’importanza di essere considerati e rispettati dai familiari e dalla cerchia di conoscenti, sentimenti che i nostri anziani restituiscono in forma di saggi e affettuosi consigli con la forza dell’esperienza e il desiderio e la capacità di donarsi agli altri con grande distacco e libertà.
La “ricetta di lunga vita” – paradossale ossessione delle nostre società che causa effetti controproducenti sulla qualità delle nostre esistenze – è spiegata dai nostri vecchi in due passaggi di disarmante semplicità: vivere in pace con tutti e accontentarsi di ciò che si ha.
Il confronto tra le diverse epoche della vita è forse un po’ scontato, ma inevitabile, così come la domanda se sia stata meglio quella di ieri o sia meglio quella di oggi. Le donne del campione tendono a preferire l’epoca attuale per le migliorate condizioni delle loro vite, soprattutto per ciò che riguarda gli aspetti pratici, ma se la riflessione si sposta sugli aspetti valoriali, anch’esse ritornano custodi delle tradizioni. Il confronto si chiude in modo solo apparentemente paritario: il “buono” dell’oggi è ben accolto per il “comfort”, ma è respinto sul piano dei valori perché visto come una minaccia per la continuità dei principi fondanti della comunità.

I figli
In tutti i racconti ritorna spesso il tema dei figli. Restando nell’ambito delle considerazioni su quale epoca sia la migliore, la riduzione delle nascite suscita riflessioni per certi versi sorprendenti proprio da parte delle donne: pur consapevoli di toccare un tema “sacro”, le loro risposte suonano trasgressive rispetto ai parametri culturali consolidati. In ogni caso, la motivazione della preferenza verso un minor numero di figli è sempre contingente alle mutate esigenze imposte dalla società, e lascia comunque trasparire una forte solidarietà con la condizione attuale delle madri.
In tutta l’indagine che ha condotto, l’autrice non è mai “inciampata” in un nostalgico ripiego nel passato o nell’oleografia del “buon tempo che fu”. Anzi, l’ “andare avanti” e il “guardare oltre” sono emerse prepotentemente come caratteristiche di questa generazione e di questo popolo, che ha sempre accolto con entusiasmo le innovazioni e avvertito l’importanza della conoscenza e del sapere per capirle e dominarle. Ed è proprio per questo che colpisce, al netto di tutto, che il confronto si chiuda con un atteggiamento di forte preoccupazione, da parte di tutto il campione, proprio nei confronti del clima sociale e culturale attuale: l’illusione consumistica e la noia e l’insoddisfazione da essa trascinate, sono considerate le maggiori cause di questa preoccupazione.
La testimonianza di un’intervistata riassume molto bene tutta la questione e si chiude con una considerazione molto bella e di grande effetto. Dice: “Non vedo bene il futuro delle prossime generazioni perché i ragazzi (…) non sanno quello che vogliono, e i genitori li elogiano, gli danno corda e li giustificano. Non è così che si preparano i bambini e i ragazzi alle difficoltà della vita. I figli bisogna baciarli solo quando dormono, diceva mia nonna”.

L'illegalità
Il Molise è tra le regioni italiane con i più bassi indici di delinquenza e tra le migliori posizionate come percentuale di diplomati e laureati. Il frequente riferimento dei “nostri anziani” all’importanza dell’istruzione sembra essersi declinato molto bene nei fatti. In contraltare, era prevedibile la loro sensibilità rispetto al problema della delinquenza, naturalmente sentito presso tutta la popolazione di una certa età. Sappiamo quanto sia facile, in generale, che gli anziani abbiano, rispetto a questo argomento, un atteggiamento di arroccamento difensivo, molto comprensibile. Meno scontata era invece la risposta del campione, che non ha mai invocato misure repressive straordinarie o pene più severe. Quasi tutti hanno collegato la delinquenza al sovvertimento delle regole praticata dall’intera società attuale, e sottotraccia sentono che il “rimedio” deve partire da lontano, cioè dalla riscoperta dei valori, se è il caso anche attraverso la misericordia. A differenza di tanti anziani, e in particolare di quelli urbanizzati, i nostri centenari sono meno soli e quindi meno esposti, più protetti dallo scudo ideale della comunità: senza paure dirette e senza “spettri” che si auto-alimentano, è più facile avere una visione distaccata, più critica e obiettiva.

Il mito del tempo andato
Né rimpianti, né sogni nel cassetto: questo traspare dai racconti degli intervistati in merito al tempo andato. Può darsi che le loro risposte siano state mosse da una pudica reticenza o dal desiderio di apparire forti, ma l’autrice della ricerca ci assicura che, nei fatti, non ha mai colto tracce di oggettive frustrazioni o rivendicazioni. Esistono invece ancora aspettative per il futuro, ovviamente proiettate sulle discendenze. Viene spontaneo ricondurre le motivazioni di una visione della vita così positiva all’impostazione “doveristica” del sistema culturale e dei valori: aver fatto il proprio dovere colma l’orizzonte aspirazionale di queste persone, ne appaga i bisogni più profondi e ne placa ogni inquietudine.

Fortuna e felicità
Per i “nostri” sono parole senza peso: nonostante il bilancio tutto sommato positivo della loro esistenza, non si ritengono fortunati, e nemmeno si ritengono felici perché non si sono mai consumati nella sua spasmodica rincorsa. La felicità suona per loro come un concetto astratto, una categoria emotiva come tante, del valore di un attimo, e dunque poco utile per la costruzione di una solida esistenza.
Il senso, il gusto e il piacere delle loro vite si sublimano nell’etica e nel raggiungimento di traguardi soprattutto per la famiglia: chi la porta in salvo attraverso i mari della vita è appagato. Sotto questo punto di vista, il bilancio è positivo per tutti, perché tutti hanno trasmesso ai discendenti la tradizione e aiutato i figli ad approdare nel “nuovo universo” con dignità e sicurezza. L’appagamento nasce dal risultato personale, ma anche dalla stima che la comunità riconosce loro. Il loro sentimento è che la vita sia valsa per questo: per il dovere compiuto.
C’è un che di sommessamente epico e di silenziosamente eroico in queste esistenze “arcaiche”. Le testimonianze ci dicono molto del carattere “straordinariamente normale” di questa terra e di questa gente.
Quasi per tutti, la speranza di fondo è quella della “continuità”, del non cambiamento, del desiderio che la vita continui come fosse “un vino che ormai non ha più alcun segreto per il palato, ma che sprigiona ancora gusto, che si vuole ancora sorseggiare goccia a goccia rubando ogni istante al tempo che scorre inesorabile, e accogliendo ogni nuovo giorno come un regalo inaspettato”.
La vita è rimessa nelle mani di Dio senza pronostici, ma non è rassegnazione, piuttosto è una profonda accettazione e comprensione del grande ciclo della vita da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.
Così chiude il suo racconto una delle nostre “vecchine”: «Quando passera l’Angelo, dirò ‘amen’ e lo seguirò».

Il futuro è... la tradizione?
Mi viene spontaneo aggiungere a questo lungo “riassunto” dell’opera di Angela Amoroso una mia chiosa personale, stimolata da uno dei tanti scritti che mi è capitato di leggere proprio in questi giorni in ricordo e cordoglio per la morte di Gianni Vattimo.
Mi riferisco in particolare a quanto scrisse Vittorio Messori nel suo libro “Pensare la Storia” del 1992, dove cita un colloquio che ebbe con Vattimo che, a un certo punto, espresse un pensiero che non si aspettava. Rivolto a Messori, Vattimo disse ironicamente: «Voi cattolici avete resistito impavidi per quasi due secoli all'assedio della modernità. Avete ceduto proprio poco prima che il mondo vi desse ragione. Se tenevate duro ancora per un po', si sarebbe scoperto che gli ‘aggiornati’, i veri profeti del futuro ‘post-moderno’ eravate proprio voi, i conservatori. Peccato. Un consiglio da laico: se proprio volete cambiare ancora, restaurate, non riformate. È tornando indietro, verso una Tradizione che tutti vi invidiavano e che avete gettato via, che sarete più in sintonia con il mondo di oggi, e che uscirete dall'insignificanza in cui siete finiti ‘aggiornandovi’ in ritardo. Con quali risultati, poi? Chi avete convertito da quando avete cercato di rincorrerci sulla strada sbagliata?».
Mi sembra che la risposta che Vattimo diede a Messori “in tempi non sospetti” sia molto in sintonia con l’esperienza che traspare dai racconti dei “nostri centenari”.

Luigi Mezzacappa, 24 settembre 2023

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Una balconata aperta su un panorama di colline e case diroccate...

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Lorenzo e Roberta sono molisani, ma non avevano ancora mai visto o visitato Monacilioni.
Volentieri pubblichiamo ciò che Lorenzo ha scritto e che ci ha segnalato. Lo consideriamo un bellissimo regalo che ci onora e inorgoglisce, commossi perché ha saputo così bene interpretare lo spirito e l'essenza del luogo...
Impossibile nascondere che ci ha emozionato scoprire che il nostro piccolo paese riesce a stimolare la curiosità e i sentimenti di un... "forestiero". E' il segno, noi crediamo, che a questo piccolo borgo con il quale la Storia e la natura non sono state generose perché gli hanno tolto molto - una chiesa millenaria e un centro storico meraviglioso ricco di piccole gemme architettoniche realizzate nel tempo dagli artigiani del luogo - è rimasta la cosa più preziosa: un'anima che sa ancora "parlare".
Grazie Lorenzo, grazie davvero.


Monacilioni
Mentre Marcell Jacobs entrava nella storia dello sport vincendo i 100 metri a Tokyo, io e Roberta entravamo in un’altra storia, quella monacilionese, o mac’liunar’, come amano definirsi i 490 abitanti di questo paesello a 590 metri sul mare. Ascolto l’impresa alla radio, festeggio come pur si confà in queste occasioni, e poi mi incammino. C’è subito una chiesa all’ingresso del paese. Una chiesa grande, nuova, avrà avuto una trentina di anni, forse meno. Non se ne vedono di frequente da queste parti. E poi c’erano elementi che mi turbavano. Statue di santi: mai viste tante, quasi ammassate l’una sull’altra; e alcune pale d’altare, decisamente più antiche della chiesa in cui erano conservate.
In un angolino, il busto di un parroco. Capisco. La chiesa dell’Assunta, in cui mi trovavo, era solo il rifacimento dell’antica chiesa madre, ardentemente voluto da don Domenico Leccese, morto nel 2012, eternizzato nel marmo. Cos’era successo all’antica chiesa lo avremmo scoperto di lì a poco.
Lasciamo questa moderna chiesa di periferia e ci incamminiamo: caldo, poche anime. Cerco il centro storico e non lo trovo. Percorriamo una strada di case anni Cinquanta, un bimbo fa un sonoro rutto alla finestra, due ragazzi ammazzano una vipera, prendiamo le scale. In cima, una delle scene più commoventi da quando giro il Molise.
Un vecchietto su una panchina, lo sguardo fisso davanti a sé, un enorme salice piangente a fargli ombra, una piazzetta quadrangolare, una balconata in fondo, aperta su un panorama di colline e case diroccate. Un vecchietto su una panchina, malinconico testimone solitario, negli occhi un passato scivolato via per sempre, franato. Fino al 1961, al posto dell’orizzonte collinare, una bellissima chiesa duecentesca, ancora visibile, col suo altissimo campanile, in qualche foto d’epoca. Di essa restano la pianta, mozziconi di colonne, la doppia scalinata d’accesso, quasi un abbraccio, e un crocifisso che fa da segnavia della storia. E fino al 1961, al posto di torri cadenti e tetti bucati, un centro storico nel pieno del suo fascino medievale.
Fondato alla fine del X secolo, il castrum Monachi Leonis era probabilmente una fortificazione difensiva ordinata dall’abate di Montecassino a un frate sottoposto di nome Leone che amministrava forse un convento in questa zona. Per alcuni si tratterebbe dello stesso San Leo patrono di San Martino in Pensilis. Possibile ma: 1. Leone era un nome comune tra i frati, 2. quel Leone visse circa un secolo dopo, quando Monacilioni era già un centro di un certo rilievo, 3. quel Leone operò sulla fascia costiera, non nell’entroterra.
Tornando a noi: nel 1961 l’ennesima frana di un movimento iniziato dieci anni prima determinò l’abbandono, il crollo o l’abbattimento del paese vecchio. Nella chiesa, dal 1752 una pregevole cappella barocca era stata innalzata a Santa Benedetta Martire, patrona, con San Rocco, di Monacilioni. Ora Santa Benedetta, col calice in cui raccolse il suo sangue, riposa, neanche troppo in pace, nella suggestiva cappella di Santa Reparata, altra martire di un secolo più vecchia. Benedetta fu traslata a spalla dalle catacombe di Santa Priscilla: un lungo viaggio, ricco di soste e miracoli, come quello dello storpio che ricamminò a Cercemaggiore, o come quello del corpo santo che solo i mac’liunar’ riuscivano a sollevare senza difficoltà. Figata. Dicevo comunque “neanche troppo in pace” perché, qualche anno fa, al manichino in cui sono incastonate le reliquie fu rubata la corona d’oro. Puntualmente rifatta eh, se non altro perché la devozione popolare alla santa, diffusa letteralmente in ogni comunità monacilionese nel mondo, è tale che da più di un secolo esiste addirittura una Società Cattolica in suo onore. È semplice il discorso: identità assoluta. Monacilioni è Santa Benedetta, e da un certo punto di vista viceversa.
È per questo che – recita il sito della Società – ogni monacilionese nel mondo conserva gelosamente un’immaginetta di Santa Benedetta. E di monacilionesi per il mondo ce ne sono davvero tanti. Negli anni Cinquanta, Monacilioni faceva più di duemila abitanti. Oggi ne fa quasi un quinto. E ai migranti, quelli con la morte dentro, Monacilioni ha dedicato un monumento, anche questo, tra i più belli visti finora: un’enorme piazza con al centro lo stemma della città, sulla parete gli Stati che hanno accolto e dato speranza a migliaia di mac’liunar’, una statua bronzea, un “Pensatore” di Rodin in salsa molisana, con meno vitalità nella mente e più morte nel cuore. E ora toccava anche a noi, mac’liunar’ per un’ora, andar via…

Lorenzo Di Maria

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Molise, Terra di Mezzo - RAI 5, Al di là del fiume e tra gli alberi, 31 maggio 2021

Esiste una terra che si chiama Molise? Pur essendo una delle 20 regioni ufficiali del nostro Paese, da qualche tempo spopola il meme: “il Molise non esiste”. E in effetti la culla dell’antica civiltà sannita, facilitata dalla stessa geografia, vive di una secolare oscurità. Per il suo territorio povero e montagnoso è stato infatti snobbato da sempre: dai Romani, dai Longobardi, dai Normanni e dai Borboni. Una terra protagonista di “Molise, terra di mezzo”, che Rai Cultura propone in prima tv domenica 30 maggio alle 21.15 su Rai5. Autonoma solo dal 1963, di fatto è la regione più giovane d’Italia e ancora oggi la meno conosciuta, talmente tanto poco conosciuta e bistrattata che un tipico paesino di questa terra, proprio per riscattarla da questo anonimato, ha dato vita al progetto “regalati il Molise” offrendo appartamenti per un soggiorno di una settimana per il puro piacere di far conoscere e condividere la propria terra. Una terra schiva e poetica, piena di amore e orgoglio per la propria storia e fatta di ospitalità, solidarietà e autenticità, dove il tempo sembra essersi fermato e dove la sopravvivenza e l’intenso legame con le tradizioni e la memoria rendono il Molise un “piccolo mondo antico”. È terra di transumanza per eccellenza: i tratturi, le lunghe vie d’erba che fin dai tempi dei sanniti percorrevano i pastori con le loro greggi per lo spostamento stagionale degli animali, sono ancora oggi sentiti come testimoni inestimabili di un passato identitario al quale si è fortemente legati. In questo territorio fantasma, un piccolo fazzoletto di terra stretto tra Abruzzo e Puglia e spinto verso l’Adriatico da Lazio e Campania, si scoprono tanti piccolissimi borghi sulle cime dei monti o adagiati sulle colline, immense distese di verde che costeggiano le strade, paesaggi che si stagliano all’orizzonte. Ma soprattutto conquista e resta nel cuore la gente del Molise: un’umanità nascosta, mai superba, fiera delle proprie origini che ti abbraccia con la propria naturale ospitalità.

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Viaggio nel mio Molise. Itinerari per perdersi. Nei ricordi.

Viaggio nel mio Molise. Itinerari per perdersi. Nei ricordi.
un libro di Luigi Mezzacappa e con le fotografie di Marco Petrino
Il ricavato sarà devoluto alla Società di Santa Benedetta.
edizioni YouCanPrint
ISBN: 9791220310413

Una vacanza imprevista, un breve viaggio. Iniziato come viaggio in un luogo e, lentamente, trasformato in un viaggio nel tempo e nella memoria. Una terra raccontata come uno specchio in cui riflettersi. Un tempo immaginato più che vissuto, forse distorto dalla lente della nostalgia. Eppure, forse proprio perché non consumato dalle amarezze quotidiane, il ricordo restituisce una residua speranza, l'idea di un nuovo cammino nel segno di una semplicità smarrita. Pensieri in libertà. Una libertà ritrovata, sincera come quella del bambino che eravamo.

Ordinabile su: YouCanPrint

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Monacilioni che volge le spalle a Sant'Elia

Serrazasilla è il monte più importante con i suoi 922 metri che si incontra inoltrandosi verso l’area costiera, ma c’è ancora tanta strada da fare posizionato com’è a molto meno della metà, in linea retta, dalla distanza che separa l’Appennino dal mare; stiamo parlando, va precisato, dell’ambito territoriale posto alla destra idrografica del fiume Biferno perché dall’altro lato c’è ancora più avanzato in direzione dell’Adriatico e più alto monte Mauro. Lasciando perdere quest’ultimo, la famosa eccezione che conferma la regola, si riscontra che a partire da Serrazasilla man mano che ci si avvicina alla fascia litoranea diminuisce l’altezza delle emergenze montuose.

Forse la ragione di ciò va trovata nel cambiamento che si ha nelle formazioni geologiche con il passaggio dal mondo delle Argille Varicolori da lì (Serrazasilla) a poco in quello dei Monti della Daunia dominato dalla Formazione Faeto, fino a giungere ai depositi alluvionali del Basso Molise e, quindi, alla pianura. Un altro aspetto morfologico che colpisce è che sia i rilievi che precedono la vasta area delle argille in cui è quasi conficcato il Flysch Numidico che è il substrato di Serrazasilla e sia quelli che seguono (i Monti del Sannio) sono pressoché allineati fra loro secondo una direttrice nord-sud mentre la nostra montagna risulta a sé stante.

In questo caso la spiegazione è facile ed è questa: in quella enorme fossa posta tra le due catene montane citate, cioè i Monti del Sannio e quelli della Daunia, in una lontana era geologica si riversò del materiale caotico, in parte terroso, le Argille Varicolori, e in parte costituito da blocchi rocciosi tra i quali vi è il Flysch Numidico, immersi in ordine sparso nel magma argilloso. Serrazasilla, ritornando al discorso che è il punto più elevato posto tra il massiccio matesino e il litorale nella striscia di territorio tra il Biferno e le aste fluviali del Tappino e del Fortore, rappresenta un elemento di separazione fisica tra i comprensori situati al di qua e al di là di esso, non tale, però, da determinarne una anche culturale e politica.

Il Contado di Molise inglobava pure il larinate dove si concludeva e Serrazasilla risultava, perciò, pressoché in posizione centrale ad esso, una cerniera tra il Sannio Pentro e Frentano. Perde il suo ruolo baricentrico (che conserva solo fra i bacini del Biferno e del Fortore evidentemente) quando la regione viene a comprendere pure la zona di Termoli. Un’annessione alla Provincia di Campobasso del cosiddetto Basso Molise che si potrebbe leggere come volontà di avere uno sbocco a mare, anche per l’aspetto allungato che viene ad assumere in senso est-ovest l’attuale regione; che questo sia l’intento lo si desume oltre che dalla forma pronunciata, dalla constatazione che il fronte marino è corto, 36 chilometri, un semplice affaccio sull’Adriatico e non, perciò, un comprensorio largo appetibile per le produzioni agricole.

Un capovolgimento di interessi, per inciso, epocale perché per i Sanniti il mare era il Tirreno con le sue ricche città da conquistare. Vero o non vero è certo che furono fatti molti sforzi per realizzare infrastrutture di comunicazione efficaci per collegare l’interno con la costa, tanto stradali, la statale Sannitica con le sue belle opere d’arte, quanto ferroviarie, la linea che porta dal capoluogo regionale alla cittadina adriatica. In effetti, l’arteria viaria doveva ricalcare un antico percorso romano mentre la ferrovia, è ovvio, è del tutto nuova e pertanto è stato un investimento notevole.

Raffaele Colapietro dice che è nata per trasportare il grano del Molise Centrale, unità sub-regionale granaria per eccellenza, allo scaricatoio di Termoli, ma in verità la sua nascita sembra più legata al proposito di realizzare una maglia di strade ferrate composta dalle grandi linee longitudinali che dal settentrione d’Italia portano al meridione costruite per unificare la Nazione (in questo caso la Bologna-Otranto e la Sulmona-Carpinone-Isernia-Boiano-Boscoredole con ingresso nel beneventano) e da rami trasversali, uno è questo. Che tale sia l’intento lo si coglie nel suo incedere rettilineo, senza toccare i paesi salvo i centri più grandi, Casacalenda e Larino.

Nonostante ciò si ritiene che la ferrovia e la strada, le quali in molti tratti corrono affiancate, sono servite a ridurre la sensazione di isolamento che viveva la popolazione di queste parti. Monacilioni e S. Elia a Pianisi che stanno ai piedi di Serrazasilla hanno una stazione ferroviaria (in comune, ambedue, con altri paesi) seppure discosta abbastanza dall’abitato. A sentirsi maggiormente appartata è stata, di certo, Monacilioni servita in passato da un’unica via che qui si fermava. Monacilioni non era dotata neanche di un tracciato viario, il quale è molto più recente, che permettesse di arrivare a S. Elia nonostante che i due borghi, siano, in linea d’aria, tanto vicini.

È come se essi si dessero le spalle e le spalle è il Serrazasilla. Qualcosa di analogo vale per Pietracatella che, al pari di Monacilioni affaccia sul Tappino, al contrario di S. Elia che invece similmente a Macchia Valfortore guarda il Fortore, corso d’acqua la cui asta è, non del tutto, perpendicolare a quella del suo affluente. In definitiva, in aggiunta alla collocazione rispetto al Serrazasilla, un elemento, ad ogni modo, unificante, presentano differenze di tipo geografico pure se si considera l’idrografia. Il Serrazasilla domina il Tappino e, da questo lato, è ancora più dominante perché il dislivello che intercorre tra l’alveo e la sua sommità e di circa m. 600, effetto di dominanza che non si avverte osservandolo dal fronte opposto in quanto lì l’orografia è ben diversa.

Il Serrazasilla si stacca di poco dai terreni contermini i quali sono anch’essi altimetricamente consistenti; la Sannitica è costretta a salire al Valico di Campolieto che è a m. 906, l’unico varco disponibile nel sistema montagnoso che la delimita, affiancandosi ad essa da una parte il Serrazasilla e dall’altra il Colle Melaino che è a m. 892. La ferrovia, invece, è obbligata a Femminamorta a correre in galleria. Il Serrazasilla visto dalla statale Sannitica non appare come una montagna il salto di quota tra la cima e l’arteria essendo minimo.

S. Elia per la presenza di questa barriera montana che non permette altri attraversamenti rinuncia addirittura, se non con un percorso tortuoso, a collegarsi con il capoluogo. Anche il Braccio Trasversale ha necessità di “scansarsi” da questo rilievo per raggiungere in agro di S. Elia il Celano-Foggia il quale pure lo evita sfiorandolo appena nella sua parte bassa; il Serrazasilla assiste dall’alto a tale incontro che è la meta della ricorsa fatta dal Braccio partendo dal Matese, così come osserva da distanza il Castel di Sangro-Lucera mentre solca il territorio comunale di Pietracatella.

di Francesco Manfredi-Selvaggi
(Tratto dal sito "Il Bene Comune", Articolo originale)

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Due passi in Molise...

Con immenso piacere, inauguriamo questa rubrica con il contributo di Maria Clara Restivo e Giulia Rabozzi, due giovani ragazze torinesi. Maria Clara e Giulia stanno lavorando a un progetto che consiste nel raccontare il loro viaggio in Molise fatto a piedi l'estate scorsa. Abbiamo chiesto loro il permesso di pubblicare i loro video e non solo ce l'hanno accordato, ma ci hanno anche informati che sulla loro pagina Facebook potremo seguire lo sviluppo del loro progetto perché hanno deciso di pubblicare il loro diario di viaggio a puntate. Qui la loro pagina Facebook.
Il loro video "Due passi in Molise" ci racconta con estrema simpatia il loro cammino... "nella regione che non c'è"! Buona visione!

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... dov'è il Molise???

Un'altra "puntata" delle nostre giovani e simpatiche amiche che conducono un'interessantissima indagine: quanti sanno dov'è il Molise...?